Le donne vengono censurate per aver fatto coincidere il ruolo produttivo con quello riproduttivo. Comunque discriminate in tutti i settori specie nel Mezzogiorno ma anche nel Nord Italia, da qualche anno, il fenomeno rivoltante è fortemente diffuso.
Negli ultimi giorni è rimbalzata agli onori della cronaca la storia della pallavolista a cui sono stati chiesti i danni perché incinta. La notizia, seppur circolata nella giostra mediatica, non è stata ritenuta degna di approfondimento dunque le è stato assegnato un posto in seconda fila nel teatro dell’informazione.
I primi attori che dominano la scena sono sempre loro: “…Il Covid-19, star indiscussa e nefasta, da un anno, ormai; la crisi sanitaria, economica e sociale scaturita dalla pandemia...”. Negli ultimi mesi si sono aggiunti altri coprotagonisti: “…La nascita del governo Draghi, la corsa ai vaccini…”.
Non ha dominato per molto, invece, la triste vicenda dell’atleta trattata dall’ente sportivo come la cosiddetta pezza da piedi: “…Due anni fa ho firmato un contratto. Resto incinta – racconta Lara Lugli, 41 anni – – ed immediatamente lo comunico alla società. Nel contratto c’era una clausola per cui se una giocatrice resta incinta, il contratto stesso risulta nullo. Io ho solo reclamato lo stipendio del mese precedente, senza chiedere nulla che non mi spettasse, ma solo quanto dovuto e per cui ho lavorato…” .
Il fattaccio è accaduto nel 2019 quando la sportiva giocava in Serie B1 nelle fila dell’allora Ads Pordenone, oggi Maniago Pordenone: “…Restare incinta è considerata una mancanza di professionalità – aggiunge Lugli – come aver assunto coca o essere dopata. Siamo dilettanti, privi di tutele sindacali
…”.
A distanza di un mese la donna ha perso anche il bambino con tutte le gravi conseguenze che provoca un evento cosi nefasto. La società, di contro, l’accusa di “aver taciuto al momento della trattativa contrattuale la sua intenzione di avere figli. Inoltre, ha venduto la sua esperienza per mirare ad in ingaggio più elevato, con la consapevolezza che la sua presenza poteva risultare indispensabile. Infine, a causa della sua assenza, abbiamo perso posizioni in classifica e sponsor per l’anno successivo…”. Insomma oltre al danno anche la beffa.
Una vicenda assurda ed ignobile. Una notizia che lascia basiti, a dimostrazione di quanto le donne siano penalizzate in tutti i settori. Sulla vicenda si sono fiondate come iene fameliche gli haters (odiatori della rete) scaricandole addosso una serie inaudita di minacce, insulti e contumelie varie. L’epilogo di questa ennesima storiaccia si avrà a maggio davanti al giudice di pace di Pordenone.
Il volley, del resto, non è nuovo a fatti del genere. C’era stato, infatti, il precedente di Carli Llyod, la calciatrice americana del Casalmaggiore insultata sui social per la gravidanza e costretta a rescindere il contratto e ritornare negli Usa. La spinosa vicenda della Lugli è emersa mentre si celebrava l’8 marzo, con lo scontato flusso di retorica ed ipocrisia.
Mentre la realtà va in tutt’altra direzione. Se le donne decidono di non fare figli, vengano accusate di minare la stabilità della società per egoismo e per carriera. Se li fanno, diventano un peso per i propri datori di lavoro. E vengono censurate per aver osato, per aver fatto coincidere il ruolo produttivo con quello riproduttivo.
Diversi sono gli aspetti che dovrebbero urtare chiunque sia dotato di un minimo di coscienza civile. Innanzitutto un contratto in cui viene stipulata la nullità dell’obbligazione se la controparte in quanto donna rimane incinta, decidendo di assolvere alla sua naturale funzione generatrice, è un obbrobrio giuridico, oltre che morale. E dovrebbe essere considerato nullo.
E’ successo ad una società sportiva ma la cronaca è ricca di tanti, troppi contratti con dimissioni estorte e firmate in bianco pena la rescissione con la clausola riguardante il rischio maternità. Considerare la maternità un rischio e non un dono che la natura ha deciso di offrire alle donne, la dice lunga sulla stura del marciume e della putrefazione in cui sono affondate le relazioni umane e sociali.
Le dimissioni in bianco sono una pratica molto diffusa nel mondo del lavoro soprattutto nel Bel Paese e consiste nel costringere le lavoratrici alla firma delle proprie dimissioni in anticipo ovvero al momento dell’assunzione. L’iter si conclude firmando il documento con la data desiderata (dal datore di lavoro) in caso di una malattia lunga, un infortunio e, più frequentemente, una gravidanza.
Un vero e proprio ricatto occupazionale perpetrato ai danni di vittime che si trovano a dover scegliere tra lavoro o procreazione. Se si opta per il primo, la conseguenza è l’aborto. Nel secondo caso il risultato è la certezza della disoccupazione. Bella prospettiva per un Paese che si definisce civile e che mette le proprie cittadine alla stessa stregua degli equilibristi, tra l’incudine ed il martello.
Qualunque scelta si faccia, a pagare sono sempre le donne. A conferma di quanto affermato ci viene in soccorso una recente indagine Istat sull’uso del tempo. Risulta infatti che oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio non è il risultato di una libera scelta della donna.
Tra le giovani generazioni sono in crescita le interruzioni più o meno velatamente imposte dal datore di lavoro. La situazione è particolarmente critica nel Mezzogiorno dove quasi la totalità delle interruzioni lavorative legate alla nascita di un figlio può ricondursi a dimissioni forzate. Le leggi finora approvate dal Parlamento si sono dimostrate del tutto inefficaci mentre scarseggiano i controlli.
Dette norme non hanno portato, in concreto, nessun beneficio se la pratica scorretta continua ad essere perpetrata senza incorrere in sanzioni: “…Resta molto da fare per portare il livello della parità di genere a quello delle medie europee…” ha chiosato il presidente del consiglio Mario Draghi lo scorso 8 marzo in occasione di un intervento per la giornata internazionale della donna.
Ma le tante chiacchiere e la retorica mielosa che scorre a fiumi stanno a zero di fronte ai fatti nudi e crudi.
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