Storia di un bambino morto ammazzato

La sera del 7 ottobre 1986 Claudio Domino, 11 anni, veniva raggiunto da un proiettile in pieno volto. Il sicario fugge in moto indossando un casco integrale. Dopo 38 anni l’assassino è rimasto senza nome.

Palermo – Due ragazzini si rincorrono e si azzuffano lungo una viuzza polverosa del popolare quartiere San Lorenzo. Uno dei due bambini che giocano si chiama Claudio Domino e ha 11 anni. Suo padre Antonio sta calando la saracinesca davanti la vetrata della sua piccola impresa di pulizie, ed è proprio lì che il piccolo Claudio si sta dirigendo per chiedere le chiavi di casa al padre. Una volta giunto a negozio Antonio Domino dà le chiavi al figlio per poi vederlo allontanarsi verso casa. Pochi minuti dopo Antonio si trova ancora sul marciapiede davanti alla bottega con alcuni amici, all’improvviso sente un botto, che l’uomo riconosce immediatamente come un colpo di pistola.

Il carpentiere si girà in direzione dell’esplosione e vede un ragazzino corrergli incontro. E’ l’amichetto di Claudio che, ansimante e terrorizzato, gli dice che hanno sparato al figlio. Inizialmente incredulo, Antonio corre quelle poche centinaia di metri che lo dividono da quel corpicino esanime immerso in una pozza di sangue. Il bambino è stato sparato alla fronte e correre in ospedale non servirà a nulla. Claudio è morto ammazzato in mezzo alla strada per mano di un boia sparito chissà dove.

La polizia sul luogo del delitto

Il racconto del compagno di Claudio narra di un omicidio lucido, freddo e mirato. Un uomo con il casco integrale a bordo di una Kawasaki di grossa cilindrata si avvicina ai due piccoli amici domandando loro: “Chi di voi è Claudio Domino?“. A quel punto Claudio fa un paio di passi verso il motociclista affermando di essere lui la persona che cerca. L’uomo alza l’arma e mira alla testa, a bruciapelo, e Claudio si spegne in un attimo mentre il rombo del motore si allontana lungo la via che ritorna silenziosa prima della ressa di curiosi e delle sirene di carabinieri e polizia. In 38 anni sono state battute diverse piste, ma nessuna di queste ha portato alla verità.

L’aula bunker.

È il 1986 e quei due bambini che scorrazzano in quella via polverosa del quartiere San Lorenzo sono totalmente incoscienti del fatto che il mondo intorno a loro sta cambiando. È l’anno del maxiprocesso, l’anno in cui la Rai racconta agli italiani la storia di quegli uomini che ringhiano dietro le sbarre dell’aula bunker. Proprio con quell’aula s’intreccia il destino di Antonio Domino, la sua piccola impresa si era infatti aggiudicata l’appalto per i servizi di pulizia dell’aula. Viene dunque battuta la pista dell’intimidazione mafiosa mirata a destabilizzare il corretto svolgimento del processo del secolo. 

Giovanni Bontate

A pochi giorni dall’assassinio il boss di cosa nostra, Giovanni Bontate, rilascia una dichiarazione spontanea da dietro le sbarre dell’aula bunker: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare“. Questa dichiarazione che per Bontate sarebbe dovuta servire a tutela della Cupola, diverrà di fatto il motivo della condanna a morte dello stesso mammasantissima. “SIAMO uomini, ABBIAMO figli…CI POSSA sfiorare…”. Tutti questi verbi declinati in prima persona plurale furono effettivamente la prima ammissione pubblica dell’esistenza di un’organizzazione criminale vera e propria. La punizione per Bontate era scontata. Il boss verrà eliminato il 28 settembre 1988 per mano dei suoi sodali. Per quanto riguarda il piccolo Claudio la pista non porterà ad un sonoro nulla di fatto.

Il testimone scomodo

Falcone e Borsellino montarono l’impalcatura del maxiprocesso sulle rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Chi meglio di loro che erano vissuti all’interno del crimine organizzato potrebbe aiutare lo Stato a distruggere la mafia? Con gli anni i pentiti aumentano e portano a galla vicende sempre più orribili. Sì parla inevitabilmente anche dell’omicidio di Claudio Domino e ne parlano pentiti del calibro di Salvatore Cancemi, Giovanbattista Ferrante e Gaspare Mutolo riferendo agli inquirenti le loro verità. Ferrante, in un primo momento, afferma che il ragazzino è stato ucciso perché scomodo testimone di uno scambio di stupefacenti davanti ad una tabaccheria appartenente a tale Salvatore Graffagnino.

Gaspare Mutolo

In seguito l’uomo ritratta e riallinea la sua versione con quella che sarebbe stata e che è tutt’ora quella di cosa nostra. Sia Mutolo che Cancemi dichiarano che il clan è estraneo al fatto di sangue e raccontano anzi che Totò Riina, appena venuto a a conoscenza dell’omicidio, indice una riunione ad alti livelli per stanare e punire il colpevole. Il carnefice, o meglio il mandante dell’omicidio, viene riconosciuto dai vertici mafiosi nella persona di Salvatore Graffagnino, il tabaccaio di cui si è accennato. L’uomo confessa di avere assoldato un tossico per uccidere il bambino, perché aveva visto non una cessione di droga, piuttosto perché era a conoscenza della tresca sentimentale fra lui e la madre della vittima. Il tabaccaio confessa di aver avuto timore che Antonio Domino potesse venire a sapere dell’adulterio, così decide di mettere in atto il piano per l’assassinio della povera creatura. Ferrante dichiara di essere stato lui stesso l’esecutore materiale dell’omicidio e questa rimarrà la sua dichiarazione definitiva. La madre del piccolo Claudio Domino ha sempre negato implicazioni in relazioni extraconiugali con chiunque.

Faccia da mostro e la casa delle stragi.

In vicolo Pipitone, un sottile budello a fondo cieco vicino ai cantieri navali di Palermo, c’è una piccola casupola, per molti lo scannatoio dei clan di Palermo. Per quanto insignificanti e modeste quelle quattro mura sono il regno di cosa nostra. Il luogo dove i maggiori esponenti della criminalità siciliana si riuniscono e decidono il futuro dell’Italia. In quella casetta senza intonaco si organizzano gli omicidi del giudice Rocco Chinnici, del prefetto Dalla Chiesa e il fallito attentato dell’Addaura ai danni del giudice Falcone. Fuori da quell’edificio, durante tutti i vertici di mafia, ci sarebbe parcheggiato un furgone della polizia. E nei dintorni vigilerebbero su occhi indiscreti agenti dei servizi deviati. Cosi giurano i pentiti.

Giovanni Pantaleone Aiello

Sempre secondo i diversi collaboranti oltre quella porta d’acciaio rossa che porta dentro quella modesta dimora sarebbero passati personaggi come Bruno Contrada, allora capo della Squadra Mobile di Palermo e in seguito uomo del Sisde; Arnaldo la Barbera, capo della Mobile e in seguito questore di Palermo (l’uomo che gestì il depistaggio Scarantino) e Giovanni Aiello, ex poliziotto e in seguito anch’egli membro dei servizi. Giovanni Aiello è conosciuto da tutti come “faccia da mostro“, a causa dei suoi gravi inestetismi sul viso. E il suo nome ricorre spesso nelle deposizioni dei collaboratori di giustizia, specialmente quando si parla di omicidi tra il 1985 e il 1989.

Luigi Ilardo, mafioso nisseno pentito, per la prima volta parlerà di Aiello agli inquirenti rivelando l’esistenza di faccia da mostro e del suo mondo di mezzo fatto di mafia e Stato. L’uomo verrà associato a diversi omicidi dallo stesso Ilardo fra cui quello di Claudio Domino. Secondo il pentito il fatto di sangue voleva essere uno stratagemma per indebolire maggiormente l’associazione mafiosa, puntando a screditarne ancora più profondamente l’immagine. La pax mafiosa indetta dai clan per adottare un basso profilo durante il maxi processo, in questa maniera, sarebbe stata interrotta ponendo un ulteriore fardello sulla difesa degli esponenti di cosa nostra.

Luigi Ilardo

Ad avvalorare la tesi del coinvolgimento di faccia da mostro c’è la testimonianza del piccolo amico di Claudio, in sua compagnia al momento dell’omicidio, che dice di aver visto una ciocca di capelli biondi fuoriuscire dal casco indossato dal killer. I lunghi capelli biondi e la motocicletta usata durante gli omicidi vengono attribuiti senza ombra di dubbio ai tratti caratteristici riconducibili all’ex poliziotto, poi agente dei servizi, Giovanni Aiello. Un infarto stronca l’ex poliziotto nel 2017 a Montauro, piccola lingua di terra in provincia di Catanzaro che gli diede anche i natali. Aiello non fu mai indagato per la morte del povero bambino.

Sono passati 38 anni, di Claudio Domino rimane una via a lui dedicata sul luogo dell’omicidio e una targa di pietra. Ma nessuna verità. Claudio, di fatto, rappresenta l’ennesima vittima della mafia o dello Stato, molto probabilmente di entrambi.

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