Depistaggi e indagini non proprio adamantine contribuirono ad allontare la verità- L’oblio ha fatto il resto e la bella ragazza romana non ha ottenuto giustizia
L’omicidio di Wilma Montesi è un caso di cronaca nera ancora irrisolto di quasi 70 anni fa, che rappresentò un vero e proprio scandalo della Prima Repubblica per il coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco, del mondo della politica e non solo. Erano le 7.20 della mattina dell’11 aprile del 1953, sabato Santo, quando il muratore Fortunato Bettini trovò sulla spiaggia di Torvaianica il corpo riverso di una giovane donna: il braccio sinistro era piegato in alto all’altezza della testa e l’altro disteso lungo il fianco, indossava una camicetta di lana grezza, una sottoveste color avorio, un reggiseno rosa, mutande bianche, un maglioncino e un giaccone abbottonato al collo. Non aveva né la gonna, né le calze o le giarrettiere e neanche le scarpe.
L’uomo avvertì la caserma della Guardia di Finanza, che si rivolse ai carabinieri di Pratica di Mare. Arrivarono alle 9.30 insieme al maresciallo e al medico condotto Agostino Di Giorgio, che fece risalire la morte a 18-24 ore prima e secondo cui la donna era annegata. Due giorni prima, il 9 aprile, era sparita la ventunenne Wilma Montesi, che viveva insieme ai genitori, al fratello e alla sorella nel quartiere Salario a Roma, in via Tagliamento 76.
Wilma era una ragazza semplice, appartenente a una famiglia di modeste origini: il padre falegname e la madre casalinga. Aveva l’ambizione di diventare un’attrice e, di lì a poco, avrebbe dovuto sposarsi con un carabiniere calabrese di stanza a Potenza. Il pomeriggio del 9 aprile, la madre e la sorella andarono al cinema Excelsior a vedere il film La carrozza d’oro con Anna Magnani, ma lei preferì restare a casa e uscire, invece, più tardi, senza indossare i suoi gioielli, per non fare più ritorno. Il padre, non vedendola rincasare, si recò al commissariato di via Salaria, denunciandone la scomparsa e rivelando ai carabinieri stessi il timore che la figlia si fosse suicidata perché non poteva sopportare di trasferirsi a Potenza lontano dai suoi cari. I familiari riconobbero il cadavere e al funerale parteciparono migliaia di romani profondamente turbati dalla brutale vicenda. Ma fu l’Italia intera, quella ingenua del dopoguerra, che partecipò al dolore della famiglia Montesi.
Furono raccolte le testimonianze di tre persone che ammisero di avere incontrato la vittima ma che, in seguito, si rivelarono poco attendibili e, nel settembre del 1953, venne richiesta dalla Procura di Roma l’archiviazione del caso. Si ritenne che la vittima fosse morta per una sincope provocata da un fatale pediluvio: dopo aver lasciato i gioielli a casa per non rovinarli, Wilma si sarebbe recata a Ostia in treno per trovare refrigerio all’eczema ai talloni di cui soffriva. Avrebbe riposto le calze, il reggicalze e le scarpe nella borsa, ma dopo aver fatto una passeggiata nell’acqua si sarebbe sentita male, forse perché in fase post mestruale, sarebbe caduta a causa di un’onda e le correnti d’acqua l’avrebbero trascinata fino a Torvaianica. A dicembre fu accolta l’archiviazione del caso da parte del giudice istruttore. Versione alquanto improbabile e ridicola a cui nessuno volle credere, tanto che i giornali dell’epoca cominciarono a indagare, assaporando la libertà di opinione e di stampa dopo il ventennio. E così il caso Montesi divenne l’affaire Montesi.
“Il Roma”, giornale napoletano, scrisse che, dieci giorni prima della sua morte, l’aspirante attrice era stata vista in compagnia del figlio di una nota personalità politica, mentre il settimanale satirico “Il merlo giallo” pubblicò una vignetta che illustrava un piccione viaggiatore che volava con un reggicalze nel becco. Ma il vero scoop fu quello del settimanale romano diretto e di proprietà di Silvano Muto, “Attualità”, che nell’articolo dedicato al delitto, dopo avere attaccato apertamente l’indagine frettolosa e superficiale della polizia, raccontò della presenza di Wilma Montesi a Capocotta, vicino a Torvaianica, a una festosa riunione a base di sesso e stupefacenti con due persone molto influenti che si limitò a chiamare “X” e “Y”. Questi ultimi, credendola morta a seguito di un malore, l’avevano abbandonata sulla spiaggia.
Muto fu denunciato per notizie false e tendenziose e, davanti alla Procura di Roma, ritirò tutto. Il suo articolo, però, non ricadeva, per una settimana, nei termini di un’amnistia del gennaio del 1954 che cancellava tutti i procedimenti a carico dei giornalisti che avevano fatto illazioni sull’affaire Montesi, e così fu processato. Nell’aula del Palazzo di Giustizia di piazza Cavour, anche Giulio Andreotti assistette alle udienze, oltre a un numero esorbitante di persone che fecero lunghe code per entrare e vennero prese a manganellate dalla polizia. Silvano smentì la ritrattazione e confessò di avere svolto delle indagini e raccolto delle testimonianze, tra cui quelle di Adriana Concetta Bisaccia e di Marianna Augusta Moneta Caglio, desiderose entrambe di fare cinema. Quest’ultima, conosciuta anche come “il Cigno Nero” per il suo collo lungo, era figlia di un notaio massone della Brianza iscritto alla DC e fu, per un breve periodo, l’amante di Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo. Personaggio ambiguo, procurava donne ai militari e ai politici sia prima che dopo la Liberazione, gestiva la tenuta di Capocotta e, secondo molte voci, era coinvolto nel traffico di stupefacenti. Marianna si era recata dai Gesuiti e aveva raccontato tutto a padre Alessandro Dall’Olio che, a sua volta, attraverso una fitta rete di conoscenze, era arrivato addirittura ad Amintore Fanfani, che aveva convocato il colonnello dei carabinieri Umberto Pompei, affidandogli una contro inchiesta riservata.
Il rapporto venne chiamato in causa dalla difesa per il processo a Silvano Muto e, da lì, finì sulla stampa in modo dirompente. Nel marzo del 1954 il Tribunale di Roma sospese il processo e aprì un’istruttoria formale sulla morte di Wilma, affidandola al giudice istruttore Raffaele Sepe che rase al suolo gli orari delle testimonianze e la tesi della morte da pediluvio. La grande quantità di sabbia ferrosa ritrovata nei polmoni di Wilma (il cui corpo nel frattempo era stato riesumato), tipica di Torvaianica e non di Ostia, era il segno che fosse annegata in pochissima acqua, quasi sulla spiaggia. Secondo Sepe la ragazza si era sentita male, le persone che erano con lei, credendola morta, l’avevano abbandonata svenuta sulla spiaggia dove, respirando acqua e sabbia, era annegata. Secondo le accuse mosse dal “Cigno Nero”, Wilma si trovava a Capocotta insieme a Ugo Montagna e a Piero Piccioni, musicista di jazz, detto “il Biondino”, fidanzato con l’attrice Alida Valli e, soprattutto, figlio di Attilio Piccioni, il “nemico” di Fanfani, all’epoca ministro degli Esteri, vicepresidente del Consiglio e successore designato di Alcide De Gasperi alla guida della DC e del governo.
Nel settembre del 1954 Piero Piccioni venne arrestato per omicidio colposo e la sera stessa si costituì anche il marchese Montagna. Venne inviato un mandato di comparazione all’ex questore di Roma, Saverio Polito, per depistaggio riguardo la falsa pista del pediluvio. Iniziò così “il processo del secolo”, con un’opinione pubblica scioccata dalla scoperta di questa “dolce vita” sporca dei potenti. Nel frattempo si dimise Attilio Piccioni e al processo Alida Valli depose a favore di Piero, confermando che i giorni precedenti al delitto si trovava con lei a Ravello. Il 27 maggio del 1957 il Tribunale di Venezia assolse con formula piena Piccioni, Montagna e Polito e altri nove imputati minori, rinviati a giudizio nel giugno del 1955. Muto e Bisaccia furono condannati rispettivamente a due anni e a dieci mesi per calunnia, con pena sospesa per Bisaccia, grazie alla condizionale. Anche Moneta Caglio fu condannata a due anni nel 1966 per lo stesso reato, in Cassazione. Ancora oggi, nel 2020, la morte di Wilma Montesi resta un mistero.