Per quanto riguarda il diritto il premier è in una botte di ferro. Ciò non vuol dire che l’università italiana non risponda a regole tutte sue.
Il premier Conte è recentemente tornato nell’occhio del ciclone per un’inchiesta delle Iene sulla vicenda del concorso che lo consacrò professore ordinario di diritto privato. L’episodio è noto: nel 2002 Giuseppe Conte vinse un concorso a Caserta e uno dei cinque componenti della commissione che allora lo giudicò era il professor Guido Alpa, mentore di Conte, con il quale lo stesso condivideva gli ambienti professionali di uno studio legale.
La controversia si concentra sull’accertamento della sussistenza o meno di eventuali interessi economici in comune tra i due soggetti. In breve: qualora tale eventualità fosse dimostrata, Alpa non avrebbe potuto far parte di quella commissione e dunque – è la tesi delle Iene – quel concorso sarebbe da considerarsi nullo con effetti retroattivi ed evidente disastro di immagine per l’attuale Presidente del Consiglio.
La versione integrale dell’incontro tra la iena Antonino Monteleone ed il premier (che vi riproponiamo a fine articolo) lascia poco margine ai dubbi: Conte è un giurista, Monteleone no, e la differenza si vede tutta.
Le tesi del giornalista, apparentemente accattivanti sotto il profilo dell’inchiesta, si squagliano come neve al sole dal punto di vista dell’interpretazione del diritto. Assurdo pretendere di desumere la sussistenza di un interesse economico comune (come sembra cercare di fare Monteleone) per il solo fatto che in rappresentanza di un unico collegio difensivo si sia presentato in udienza un solo avvocato appartenente a tale collegio e non tutti quanti i suoi componenti (chiunque abbia un minimo di confidenza con le aule di tribunale sa perfettamente che questa è la prassi). Ancora più assurdo voler ricavare a ritroso la prova dell’illegittimità di un concorso tenutosi nel 2002 per il tramite di una vicenda processuale avvenuta sette anni dopo, nel 2009.
Sommamente assurdo, infine, ignorare del tutto la prova di resistenza: se anche Alpa non avesse potuto prendere parte a quella commissione, il concorso, probabilmente, non sarebbe comunque da annullare. Conte, infatti, ricevette il via libera all’unanimità, in una commissione composta da cinque membri. Essendo sufficiente ottenere la maggioranza dei consensi, anche qualora il voto di Alpa dovesse ritenersi invalido, i restanti quattro “si” sarebbero comunque bastevoli a confermare l’esito già definito.
Questo per quanto riguarda il diritto, che sancisce che il premier è in una botte di ferro. Poi, però, c’è la realtà.
Voglio essere chiaro: Conte e Alpa (anzi Alpa e Conte, perché il Maestro si cita sempre per primo: in università le gerarchie contano molto di più che in politica) sono stati accorti nel rispettare le prescrizioni normative, nell’evitare qualsiasi leggerezza, nel non commettere atti rientranti nella fattispecie che la legge giudica illegittima. Dopodiché: che Alpa sia stato il maestro di Conte è fatto notorio. E’ così normale che il maestro giudichi l’allievo (a prescindere dalla vicenda processuale di sette anni dopo, invero irrilevante ai fini del discorso)?
Per la legge sì (e non potrebbe essere altrimenti): maestro e allievo non sono categorie giuridiche, non sono entità perimetrabili, appartengono alla sfera dello spirito, non a quella del mondo terreno. La legge parla, correttamente, di interesse economico comune ed elenca taluni indici che dovrebbero desumere una simile comunione (nei quali Alpa e Conte hanno egregiamente evitato di inciampare), ma non sancisce nessuna incompatibilità (né potrebbe sancirla) correlata a quei rapporti feudali che imperversano ancora oggi nel mondo dell’università italiana.
Che il maestro Alpa abbia valutato l’adeguatezza dell’allievo Conte vi sembra scorretto? E perché mai? In tutte le università italiane funziona così, lo fanno tutti e lo sanno tutti, fin dalla notte dei tempi. Non ha mai funzionato in modo diverso.
“Ma c’è sempre la prova di resistenza”, diranno i più attenti tra voi. Vero, c’è. Infatti, numeri alla mano, sarebbe bastato anche solo l’assenso degli altri quattro membri della commissione per validare l’abilitazione di Conte. Un assenso che, del resto, non sarebbe mai potuto venire meno e, infatti, è stato puntualissimo: come avrebbe potuto non esserlo? Negare il proprio benestare all’allievo di un maestro (per di più presente anch’esso in commissione) avrebbe significato, secondo il “Codice Feudale dell’Università italiana”, fare uno sgarbo al maestro stesso. Che poi, in ipotesi, si sarebbe in futuro potuto vendicare in un altro concorso, magari proprio con un allievo di uno degli altri quattro membri di quella commissione. Non si sa mai: nel dubbio, male non fare paura non avere, dicevano gli antichi.
Quindi? Quindi niente: giuridicamente è tutto al suo posto. E’ che il diritto è congegnato per regolare il mondo contemporaneo, ma l’Università italiana rifiuta in radice gli stilemi della modernità, dunque l’incompatibilità tra i due sistemi è fisiologica, persino ontologica. L’accademia, da noi, è un po’ come il mondo degli ultras calcistici: risponde a regole tutte sue, ha una sua personalissima scala di valori.
Il contrappasso più complesso da accettare per i profani è che, verosimilmente, Conte non si è nemmeno macchiato di chissà quale ingiustizia (e nemmeno Alpa, ca va sans dire). Quella cattedra l’attuale premier, probabilmente, se la meritava davvero e, per ottenerla, si è limitato a seguire le regole del gioco. Per assurdo, qualora avesse rifiutato tali regole, Giuseppe Conte si sarebbe magari rivelato una persona migliore, un vero anticonformista, una sorta di eroe romantico: peccato che nessuno di noi se ne sarebbe mai accorto. Perché non sarebbe mai diventato un rispettabile professore ordinario, quindi autorevole, quindi Presidente del Consiglio.