Oltre 60 le vittime dall’inizio del conflitto. I cronisti diventano obiettivi militari in barba a leggi e trattati che li proteggono alla stregua dei civili. Attacchi alle tende di fortuna che ospitano giornalisti di Bbc, Reuters e Afp.
Roma – La guerra non risparmia nemmeno i giornalisti. I conflitti, oltre a procurare danni materiali e in vite umane, annientano anche la libertà di stampa. Raccontare i fatti sta diventando complicato, se non impossibile, vista la propaganda delle parti in conflitto. Ma negli ultimi tempi le vittime vere e proprie sono proprio i giornalisti.
Pare che il numero di morti siano oltre 60, nel conflitto israeliano-palestinese deflagrato dopo il 7 ottobre, con l’efferato attacco dei miliziani palestinesi di Hamas in Israele, che ha mietuto 1200 vittime, uccise in maniera brutale. La controffensiva di Israele nella Striscia di Gaza è stata immediata e sta provocando un numero di vittime spaventoso. Sembra un tetro contatore impazzito di vittime civili. Numeri che fanno rabbrividire. Ormai, veramente non si capisce più nulla.
Sono state prese di mira anche le tende di fortuna che ospitano testate internazionali come Bbc (la tv pubblica britannica), Reuters (agenzia di stampa britannica), Afp (agenzia France-Press). Così come rischia la chiusura la sede israeliana di Al Jazeera (tv araba con sede in Quatar). Sono saltati tutti gli schemi, caso mai ne fosse mai esistito uno. Una volta la stampa era considerata alla stregua della Croce Rossa.
Ora viene bersagliata con efferato cinismo. Come se di questa guerra non si dovesse conoscere nulla e quindi vengono neutralizzati alla fonte coloro che per lavoro la dovrebbero raccontare, i cronisti appunto. E’ capitato che alcuni di loro stavano facendo delle riprese sugli scontri al confine tra il Libano e Israele, in cui sono stati coinvolti l’esercito israeliano e i miliziani del gruppo paramilitare sciita degli Hezbollah, appoggiati dall’Iran, nemico storico di Israele.
Il numero di decessi dei cronisti, nel pieno svolgimento del loro lavoro, è stato confermata dal Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), un’organizzazione indipendente con sede a New York, nata per difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo. Come ha ribadito il CPJ “I giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in un momento di crisi, e non dovrebbero essere considerati obiettivi militari dalle parti coinvolte nella guerra”.
Infatti, le Convenzioni di Ginevra del 1949 recitano “i giornalisti operanti in zona di guerra devono essere considerati civili e, quindi, non coinvolti nei combattimenti”. Nelle utime settimane alcuni giornalisti internazionali hanno potuto accedere al luogo del conflitto con l’esercito israeliano utilizzando la procedura del “giornalismo embedded“.
Si tratta di un giornalista presente in un teatro operativo di guerra aggregato a reparti militari. La locuzione nacque nel 21esimo secolo e si riferiva a giornalisti incorporati (ingl. embedded) nell’esercito statunitense. Nel caso in questione si tratta di visite di breve durata e sempre sotto il ferreo controllo dell’esercito. E’ facile intuire che lavorare in queste condizioni sia molto complicato, con qualcuno che ti sta col fiato sul collo e limita la possibilità di movimento.
Ormai siamo nell’oscurantismo più totale ed è lecito porsi una domanda: “A cosa serve firmare trattati, convenzioni e leggi internazionali sulla difesa dei civili in caso di conflitti bellici, se vengono regolarmente disattesi”? E’ angosciante constatare che il diritto, ormai, conta come il due di coppe quando la briscola è a bastoni, vittima, a sua volta, di una diffusa e crudele prevaricazione!