Dopo l’agguato a Robert Fico che ha fatto tremare l’Europa ora l’attacco è al cuore dell’America. Cosa c’è dietro la lunga scia di sangue.
Roma – Non solo Trump. La lunga scia di sangue che vede nel mirino capi di Stato e leader politici è lunga. L’ultimo colpo sferrato alla democrazia è quello che ha visto vittima Donald Trump. Il 20enne Thomas Matthew Crooks, originario di Bethel Park (Pennsylvania), questa notte ha sparato con un fucile semiautomatico contro di lui mentre teneva un comizio a Butler, in Pennsylvania. L’attentatore è stato ucciso dalle forze di sicurezza dopo aver tentato di assassinare il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Sui social diceva di “odiare il tycoon e il Partito repubblicano”, ma era registrato come elettore dei repubblicani, al quale aveva donato 15 dollari. Dall’America all’Europa l’odio contro i leader politici è racchiuso in una serie di “assalti al potere” che mirano a sovvertire ogni equilibrio.
Prima di Trump, a scuotere il mondo era stato lo scorso 15 maggio l’attentato al primo ministro slovacco Robert Fico. Ferito da 3 o 4 colpi di armi da fuoco che lo avevano raggiunto al petto, all’addome e a un arto. Anche in questo caso l’obiettivo di annientarlo non è riuscito: una serie di interventi chirurgici lo hanno rimesso in piedi. Anzi, a tre settimane esatte dall’attentato di cui fu vittima nella cittadina di Handlova, Fico è tornato a comparire in pubblico in un lungo video registrato dall’ospedale di Bratislava dove era in cura. Fico era apparso in buona forma, seduto alla scrivania in camicia, per smascherare quella che secondo lui era la vera matrice dietro l’attentato.
Il primo ministro senza mezzi termini aveva detto che la ragione primaria dell’aggressione politico-culturale lanciata verso di lui fosse “fin troppo chiara: la sua linea eterodossa sull’Ucraina”. “Un piccolo Paese come la Slovacchia non può difendersi da solo: per questo ci muoviamo nell’alveo dell’Ue e della Nato, ma con una politica estera indipendente che guarda “ai quattro angoli del mondo”, aveva ricordato il premier di Bratislava. E c’è chi è pronto a giurare che dietro l’attentato a Trump ci sia la volontà di non far cessare il fuoco sul conflitto russo-ucraino e mettere fine al business della guerra, che “The Donald” invece interromperebbe appena insediatosi. Sui social è diventata virale l’immagine del primo piano di Trump accanto all’ex premier Silvio Berlusconi.
Due volti insanguinati messi uno accanto all’altro: quello del Cavaliere che ricorda l’aggressione all’allora Presidente del Consiglio il 13 dicembre 2009 in piazza Duomo, a Milano, al termine di un comizio per il tesseramento del partito “Il Popolo della Libertà”. A colpirlo e ferirlo al volto con una statuetta fu Massimo Tartaglia: il Cavaliere lo perdonò per questo vile gesto. Accanto l’immagine del viso rigato di sangue di Trump, come una scia che ritorna.
Dopo l’attacco a Fico l’Europa, scossa e preoccupata, non ha abbassato la guardia e ha diffuso l’allarme sul ritorno della violenza politica. A Bruxelles all’attentato slovacco si era anche aggiunto un altro motivo di preoccupazione, l’innescarsi della macchina della disinformazione attorno all’episodio. Una macchina che ha l’Ue nel mirino. Ma che cosa è accaduto? “Nel giro di poche ore, decine di migliaia di utenti dei social network hanno attribuito la responsabilità delle violenze a una combinazione di agenti dell’Ue e dell’Ucraina”, è stato l’allarme lanciato dall’Atlantic Council. E le cattive notizie, per i partiti europeisti, non si erano limitate ai fatti di Bratislava.
In Olanda l’estrema destra di Geert Wilders aveva incassato l’accordo di governo. Il placet dei liberali del premier uscente Mark Rutte era stato decisivo, la reazione di Renew Europe veemente. “L’accordo è totalmente inaccettabile”, aveva tuonato la capogruppo Valerie Hayer. Il ritorno della violenza politica e il diffondersi di fake news, nelle preoccupazioni dei partiti filo-Ue, sono connessi. A testimoniarlo c’è il monitoraggio scattato online sul racconto dell’attacco a Fico.
Al di là delle fake news, l’attentato a Fico, aveva destato non pochi timori a Bruxelles. La Commissione si era detta non a caso “preoccupata da questi fenomeni che possono aumentare le divisioni all’interno dell’Ue e nelle nostre democrazie”. Parallelamente, sempre online, erano cominciati a circolare post che indicavano una foto che, apparentemente, ritraeva l’attentatore di Fico accanto a Martin Šimečka, padre del leader dell’opposizione slovacca. Una somiglianza che si era poi rilevata fasulla.
“Bisogna prestare attenzione a questi fenomeni. Questo è il motivo per cui ci impegniamo ad adottare misure, in particolare sulla diffusione dell’incitamento all’odio”, aveva sottolineato il portavoce della Commissione, Eric Mamer. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, in una lettera indirizzata agli slovacchi e recapitata alla presidente della Repubblica Zuzana Caputova, aveva ammonito a “non dare per scontato la sostituzione delle armi con le parole, conquista della nostra democrazia”. Mentre anche il premier polacco Donald Tusk aveva fatto sapere di aver ricevuto minacce di morte sui social dopo l’attentato a Fico: “Gli slovacchi ci hanno dato un esempio di cosa si dovrebbe fare con Tusk”, era uno dei tweet incriminati.
Quello che preoccupa è che omicidi o tentati omicidi di politici europei, come quello avvenuto contro Fico, non sono rari. Ormai da qualche decennio in Europa il livello della violenza politica è piuttosto basso, nonostante alcuni casi preoccupanti, anche recenti. Nel corso degli anni, tuttavia, ci sono stati alcuni omicidi o tentati omicidi gravi ed eclatanti, che hanno riguardato leader e rappresentanti politici di vari paesi europei. Il più recente grave omicidio politico in Europa è stato probabilmente quello di Pawel Adamowicz, sindaco della città polacca di Danzica, che fu accoltellato il 14 gennaio del 2019 mentre partecipava a un evento di beneficenza, davanti a migliaia di persone: morì il giorno dopo in ospedale.
Adamowicz era un politico progressista e liberale, molto critico nei confronti del governo di estrema destra allora al potere in Polonia, guidato dal Partito Diritto e giustizia (PiS, la sigla in polacco). Ed era anche un sostenitore molto noto dei diritti dei migranti, dei rifugiati e delle persone della comunità LGBT+, ragione per cui era stato più volte minacciato da esponenti e gruppi dell’estrema destra polacca. Nel 2016 Jo Cox, una deputata britannica del Partito Laburista, fu aggredita in strada da un uomo che la accoltellò e le sparò più volte a Birstall, una cittadina di 16.000 abitanti poco distante da Leeds, dove Cox stava facendo campagna elettorale. Cox era una parlamentare non molto nota a livello nazionale, ma la sua carriera era in forte ascesa: era stata una dirigente di Oxfam, ong che si occupa di aiuti umanitari e progetti di sviluppo, ed era una sostenitrice della necessità del Regno Unito di rimanere dentro all’Unione Europea.
Pochi giorni dopo l’omicidio di Cox, il 23 giugno, si tenne il referendum sulla Brexit. Il suo killer fu subito identificato in Thomas Mair, un uomo con simpatie naziste e suprematiste. Diversi testimoni raccontarono che durante l’attacco Mair aveva urlato “Britain first” o “Put Britain first”, il nome di un partito di destra e anti-europeista e più in generale uno slogan usato per esprimere posizioni nazionaliste (“La Gran Bretagna prima di tutto”).
E ancora, il caso del primo ministro serbo Zoran Djindjic, ucciso il 12 marzo del 2003 da Zvezdan Jovanović, un cecchino che gli sparò a distanza mentre stava entrando nell’edificio del governo serbo, a Belgrado. Djindjic, che era un liberale e filo occidentale, era primo ministro della Serbia da un paio d’anni ed era stato uno dei principali artefici della fine del lungo governo di Slobodan Milosevic, il presidente nazionalista accusato di gravissimi crimini di guerra durante le guerre jugoslave: nel 2001 Djindjic approvò l’estradizione di Milosevic all’Aia, dove fu messo sotto processo dalle Nazioni Unite.
Infine, il tentato omicidio di Jacques Chirac: il 14 luglio del 2002, durante la parata per il giorno della Bastiglia, quando in Francia si celebra la festa nazionale, un uomo tentò di sparare con un fucile al presidente francese, che stava partecipando alla manifestazione. L’uomo, Maxime Brunerie, era un militante neonazista: non era un tiratore esperto e mancò Chirac di molto. Subito dopo tentò di suicidarsi, ma fu fermato dalle persone presenti. Fu condannato a 10 anni di carcere.
L’ultimo caso di Trump, in questa scia di sangue che dall’Europa attraversa l’oceano ma che vede nell’America i precedenti più eclatanti e antichi, non può non ricordarci che sono stati oggetto di attentati almeno sette degli ultimi nove Presidenti: tra i presidenti sopravvissuti agli attacchi ci sono Gerald R. Ford (due volte nel 1975), Ronald W. Reagan (una sparatoria quasi mortale nel 1981), Bill Clinton (quando la Casa Bianca è stata attaccata nel 1994) e George W. Bush (quando un aggressore ha lanciato un’arma da fuoco). Secondo fonti non confermate, ci sarebbero stati tentativi di omicidio anche nei confronti dell’ex presidente Barack Obama, Trump e di Biden.
La violenza politica negli Usa ha colpito varie volte l’inquilino della Casa Bianca prima di Donald Trump. Quattro dei 46 presidenti americani sono stati assassinati: il primo fu Abramo Lincoln nel 1865, poi toccò a James Garfield nel 1881, seguito da William McKinley nel 1901. Ma quella che ha scosso di più l’America è stato sicuramente l’uccisione di John Kennedy il 22 novembre del 1963, mentre attraversava con il corteo presidenziale Dealey Plaza a Dallas, in Texas.
Cinque anni dopo, il 5 giugno del 1968, toccò anche al fratello Robert Francis Kennedy nel bel mezzo di una trionfale campagna presidenziale. Fu eliminato dopo un comizio nella ballroom dell’Ambassador Hotel di Los Angeles. L’allora senatore passò per la cucina, indicatagli come scorciatoia per la sala stampa, e fu colpito tre volte da Sirhan Sirhan, un 24enne palestinese che sparò con un revolver calibro 22. Altre cinque persone rimasero ferite. Il 30 marzo 1981, a poco più di due mesi dall’inizio del suo mandato presidenziale, fu la volta di Ronald Reagan: stava lasciando l’Hilton Hotel di Washington, dove aveva parlato con 5.000 membri del sindacato Afl-Cio, quando uno squilibrato, John Hinckley Jr, fece fuoco contro il neo presidente perforandogli con un proiettile il polmone sinistro. Reagan rimase ferito quando uno dei proiettili rimbalzò sulla limousine, colpendolo sotto l’ascella.
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