L’Italia ha il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa e all’altra metà del cielo le posizioni dirigenziali sono spesso precluse.
Roma – Le donne sul lavoro occupano posizioni di retroguardia. L’occupazione femminile rappresenta il nervo scoperto del mercato del lavoro italiano. Nel senso che il suo tasso è il più basso in Europa, 38% contro il 49%. Inoltre, quelle che lavorano occupano posizioni impiegatizie, mentre le posizioni dirigenziali sono loro precluse. I dati dimostrano la scarsa rappresentatività femminile: nella dirigenza siamo al -38%, nelle professioni intellettuali -24% e in quelle tecniche -5%. Le donne, al contrario, dominano nel settore impiegatizio e nel terziario.
In questo contesto nebuloso, l’unico raggio di sole è costituito dalla dirigenza dei settori alberghieri e commerciali, dove c’è un numero di occupate sopra la media europea. E poi resiste l’insegnamento, dove le donne sono state sempre ben rappresentate. Si è sempre pensato che la laurea sarebbe stata un mezzo per raggiungere le posizioni apicali. Questo è vero per l’Europa, dove le laureate raggiungono il 67% delle posizioni dirigenziali, ma non per il Belpaese, in cui le laureate dirigenti sono solo il 36%. Il mercato del lavoro italiano pare aver creato una sorta di “riserva indiana” per le donne. Infatti, sono concentrate in percentuali altissime in settori quali addetti alle buste paga e contabilità, interpreti e traduttori, scuola media secondaria inferiore e primaria.
Una vera e propria segregazione professionale per cui anche la laurea perde valore. A confermare questo trend ci sono i dati di Almalaurea (consorzio interuniversitario) sulle professioni, da cui emerge che le donne, oltre ad essere in numero maggiore rispetto agli uomini, trovano seri ostacoli per la carriera dirigenziale, dove sono in netta minoranza. Questo squilibrio è dovuto a meccanismi di potere espressi, ancora, al maschile.
Come ha rilevato il CENSIS (Istituto di ricerca socio-economico), le donne sono più degli uomini, studiano di più e, spesso, hanno risultati scolastici migliori dei loro coetanei, tanto da costituire oggi una fetta preponderante del capitale intellettuale del paese. Ma lavorano di meno e, soprattutto, sono meno valorizzate sul posto di lavoro: il loro talento è dunque mortificato, con conseguenze che pesano sul vissuto delle singole donne ma anche sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose.
Uno degli ambiti in cui sono stati fatti maggiori passi avanti, annullando le differenze di genere, è quello dell’istruzione. Oggi le giovani donne studiano più degli uomini (il 57,1% dei laureati e il 55,4% degli iscritti a un percorso universitario nell’ultimo anno è donna), e con risultati migliori: il 53,1% si laurea in corso, contro il 48,2% degli uomini; e il voto medio alla laurea è 103,7 per le donne e 101,9 per gli uomini. Malgrado questo bagaglio culturale, le donne restano ancora imprigionate in vecchi pregiudizi e vittime di scarsi servizi sociali idonei a conciliare il tempo della produzione con quella della riproduzione, ovvero vita lavorativa e privata.
Ancora oggi, le donne si trovano di fronte ad un drammatico out-out: o la professione o la vita familiare. Così, quando si forma una famiglia, mentre gli uomini consolidano la loro posizione occupazionale, le donne compiono il percorso inverso, perdendo il posto di lavoro o sono costrette a scegliere il part-time. Una società moderna, civile, democratica dovrebbe prendere atto quando cambia la struttura socioeconomica del Paese.
Se ci sono più donne laureate, più preparate e competenti, è giusto e doveroso che facciano carriera, perché al primo posto dovrebbe esserci il bene collettivo. Invece, da sempre, domina il concetto di abbarbicarsi al potere, a qualunque costo, e di difenderlo con le unghie e coi denti, a dispetto di una realtà che va in tutt’altra direzione. Perché affiora ancora una volta l’antico e maldestro concetto che “avere il potere è meglio che fare all’amore”!