Rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile mostra la crescita di contratti a tempo, passati dal 17% al 18,1 soprattutto tra i più colti.
Roma – Il lavoro precario avanza a spasso spedito! Qualche settimana fa è stato presentato il rapporto Istat sul benessere equo e sostenibile (BES) relativo al 2023. Si tratta di una serie di indicatori per valutare il progresso di una società non solo dal punto di vista economico, come ad esempio fa il PIL (Prodotto Interno Lordo), ma anche sociale e ambientale. Gli indicatori che definiscono il BES sono 12: Salute; Istruzione e formazione; Lavoro e conciliazione tempi di vita; Benessere economico e Relazioni sociali; Politica e istituzioni; Sicurezza; Benessere soggettivo. Nell’analisi complessiva è emerso che sono cresciuti i contratti di lavoro a tempo indeterminato, scatenando le lodi della stampa mainstream che si spaccia per essere equidistante nelle sue valutazioni, in realtà si mostra molto equi…vicina. Se l’esaltazione proviene dal governo, si può dire che è quasi scontato, un po’ come chiedere all’oste “com’è il vino?”.
Ma una stampa attenta e credibile dovrebbe essere in grado di “fare le pulci” sull’argomento in questione. Ad esempio, se è vero che i contratti a tempo indeterminato sono aumentati, è altrettanto vero che lo sono anche quelli precari. Questa notizia non è balzata sulle prime pagine dei grandi giornali, ma nascosta sotto il tappeto. Mentre il mercato del lavoro italiano ha confermato questa polarizzazione, è da sottolineare che il precariato è composto da una miriade di contratti a tempo determinato della durata di mesi, giorni o settimane. Questa tipologia contrattuale è, purtroppo, in crescita tra i lavoratori più qualificati con elevati titoli di studio. Stando ai dati, i lavoratori con posto fisso sono in aumento dalla fine della pandemia in avanti e quelli a termine sono calati a 2,8 milioni.
Così come diminuiscono gli autonomi, una categoria che oltre a comprendere imprenditori, artigiani e liberi professionisti, include le famigerate “false partite Iva”, un’altra forma di lavoro precario, con lettere d’incarico, che sono una parodia dei contratti veri, ma privi di qualsiasi forma di tutela. Risultati che sono stati dati in pasto al pubblico plaudente con tutta la retorica necessaria, omettendo però che il calo dei lavoratori a termine è ambiguo, in quanto, in realtà, sono cresciuti i collaboratori. A calare, poi, sono stati i contratti a tempo determinato con meno di 5 anni, mentre quelli con anni maggiori sono aumentati. Questi lavoratori sono passati da 17% al 18%. Il rapporto, ha testualmente sottolineato:
“Si tratta di occupati che continuano a svolgere lo stesso lavoro, ma con un susseguirsi di contratti a termine, sperimentando dunque situazioni di precarietà lavorativa prolungata, rispetto alle quali non si ravvisano segnali di miglioramento”.
Un mercato del lavoro frenato da lacci e lacciuoli che ostacola il pieno sviluppo delle forze produttive, soprattutto le più istruite. La percentuale, infatti, di lavoratori in possesso di titoli di studio superiore al lavoro che stanno svolgendo è del 38,7%, con punte del 46,8% nella Pubblica Amministrazione. Un altro aspetto negativo emerso è che i lavoratori con contratto a termine hanno, in media, un salario annuale inferiore del 30% rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. Una concezione estensiva del contratto a tempo indeterminato determina un dato di fatto inconfutabile. Ovvero, poiché lo stesso lavoro a tempo indeterminato ha una durata media di quattro anni, la precarietà è a vita. Gli unici che hanno il “posto fisso” sono proprio i politici e se non più eletti, in un modo o in un altro, si riciclano in qualche Ente o Azienda Pubblica. Per questo festeggiano al suono di fanfare e stappi di bottiglie, sventolando dati veri sì, ma non completi. E’ la democrazia, bellezza!