Nativi digitali prigionieri in una scuola che guarda al passato

Le tecnologie hanno cambiato le modalità d’apprendimento delle nuove generazioni. Al sistema educativo il compito di raccogliere la sfida.

Roma – Digitale e dislessia, un legame molto stretto. Negli ultimi tempi sono stati pubblicati numerosi studi sugli effetti che la digitalizzazione produce sui giovani, i cosiddetti “nativi digitali”. Ebbene, pare che il loro profilo cognitivo sia simile a quello dei dislessici. Tuttavia la scuola sembra ancorata a vecchi modelli educativi, basati su lezioni e verifiche. Forse, questo spiega l’alto tasso di abbandono scolastico, il 12% superiore della media europea. Durante la XII edizione di EXPO Training 2023, la “filiera delle competenze”, svoltasi a Milano dal 7 all’8 novembre, l’associazione “Labirinto Progetti Onlus” ha curato il convegno “Come prevenire le difficoltà di apprendimento degli alunni con Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento) e non, valorizzando attitudini e talenti”.

E’ emerso che, la dislessia, per molto tempo considerata una malattia, in realtà è una neurodiversità. Il fenomeno, in Italia, riguarda più del 5% dei bambini della scuola primaria e secondaria. Ormai si è digitali fin dalla più tenera età e l’uso della tecnologia è talmente diffuso che l’apprendimento è cambiato rispetto ai bambini della generazione precedente. Le informazioni vengono elaborate in maniera diversa, tanto che la struttura cognitiva è connotata da più creatività e velocità dei movimenti. I nativi digitali riescono ad elaborare molte informazioni visive, utilizzando un processo dinamico, modificabile secondo le proprie necessità. Inoltre il loro approccio nei confronti delle fonti del sapere è di tipo cooperativistico. Mostrano, per questi motivi, più velocità nel prendere decisioni, ma risultano esseri deboli nel pensiero metodico.

Ma la scuola sembra non tener conto di questi notevoli mutamenti, aggrappato com’è ad un sistema ormai desueto rispetto ai tempi. I programmi didattici dovrebbero essere all’altezza della società digitale, sia per adeguarsi al linguaggio degli studenti, sia per accrescere le competenze idonea alla società digitale stessa. Questo cambiamento non riguarda solo i contenuti, ma anche i modi in cui viene trasmesso il sapere. A questo proposito, molto interessante si è rilevato il modello della logopedista relazionale dell’età evolutiva e fondatrice di “Giocoimparo”, Angela Zerbino.

Giochi educativi e didattici per vincere la sfida digitale

Si tratta di una collana di giochi educativi e didattici per sollecitare determinate funzioni cognitive: memoria, attenzione, linguaggio, apprendimento, pensiero, percezione visiva, categorizzazione, problem solving. Questo modello è stato sperimentato come laboratorio pilota in una scuola dell’infanzia di Milano. Ma non basta un esperimento seppur positivo a dimostrare che si è imboccata la strada giusta, se non si avvia un mutamento di tutta la struttura scolastica. Bisogna, innanzitutto, prendere atto della divisione esistente tra il divario dei nativi e gli immigrati digitali e progettare come diminuirlo.

Più passa il tempo e più è difficile attuarlo. Come ha affermato Mark Prensky, scrittore statunitense, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento “Bisogna educare i bambini pensando al loro futuro, piuttosto che al nostro passato”. A lui si deve l’invenzione e la divulgazione dei termini “nativo e immigrato digitale”, apparsi in un articolo del 2001 su “On the Horizon”. Non c’è niente da fare, opporre resistenza è inutile, la digitalizzazione della vita e della società è un fatto compiuto. Bisogna adeguarsi e capirla, cercando di non essere sopraffatti!

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