La testimonianza fiume della criminologa Antonella Delfino Pesce, che ha fatto riaprire le indagini sul caso di via Marsala.
Genova – Nella sua lunga e dettagliata deposizione al processo contro Annalucia Cecere, la criminologa che ha riaperto il caso racconta le intimidazioni subite, il complesso rapporto con Marco Soracco e la cruciale scoperta del verbale sui bottoni, elementi chiave per la riapertura dell’indagine sull’omicidio di Nada Cella.
Il delitto di via Marsala
Era il mattino del 6 maggio 1996 quando la tranquilla routine di uno studio di commercialista al civico 14 di via Marsala, a Chiavari, fu brutalmente interrotta da una scoperta agghiacciante: il corpo straziato di Nada Cella, giovane segretaria di 25 anni, giaceva senza vita all’interno di quei locali dove quotidianamente lavorava.
Nada, originaria del piccolo borgo di Rezzoaglio, nell’entroterra chiavarese, da cinque anni era un volto familiare nello studio di via Marsala. La mattina del delitto, la sua giornata iniziò come tante altre: un veloce passaggio in auto alla madre, bidella, con un impellente bisogno di raggiungere in fretta la scuola. Poi un breve ritorno a casa, una pedalata in sella alla sua bicicletta e l’arrivo in ufficio. Come sempre era lei ad aprire i locali, custode fidata delle chiavi. Verso le 9.15, il suo datore di lavoro, Marco Soracco, residente al secondo piano dello stesso stabile, la raggiunse. La luce dell’ingresso era accesa, un presagio sinistro di ciò che si celava all’interno. Varcata la soglia dello studio, la scena che si presentò ai suoi occhi fu raccapricciante: il corpo di Nada riverso a terra, immerso in una pozza di sangue. Un rapido ritorno al piano superiore, l’allarme lanciato alla madre, la frenetica chiamata ai soccorsi.

Nada era ancora viva ma le sue condizioni apparivano gravissime. Un trasferimento d’urgenza all’ospedale di Lavagna, poi un disperato tentativo di salvarla al San Martino di Genova. Sei ore dopo il suo giovane cuore cessava di battere, senza che avesse mai ripreso conoscenza. I primi rilievi degli inquirenti esclusero immediatamente la violenza sessuale come movente. Un’ispezione sommaria dell’ufficio non rivelò alcun segno di effrazione o di oggetti mancanti. Persino gli occhiali di Nada giacevano intatti sul pavimento, testimoni silenziosi di una violenta colluttazione con il suo assassino.
La posizione del corpo al momento del ritrovamento forniva ulteriori, inquietanti dettagli: le gambe nascoste sotto la scrivania, il volto insanguinato e coperto dalla lunga chioma. L’aggressore si era accanito su di lei con un oggetto contundente, mai ritrovato, oppure l’aveva brutalmente sbattuta contro il muro. Al di là delle copiose macchie di sangue che imbrattavano il pavimento, il resto dell’ufficio appariva in un ordine surreale, quasi a voler celare la ferocia dell’atto compiuto.
Il computer di Nada era acceso, un dettaglio che, insieme alla giovane età e alle circostanze del delitto, evocò immediatamente nella mente degli investigatori il tragico caso di Simonetta Cesaroni, avvenuto sei anni prima: due giovani donne, belle e innocenti, uccise sul proprio posto di lavoro, senza alcun testimone oculare.
Le indagini
Le indagini rivelarono sin da subito un labirinto di interrogativi e scarsi indizi. Nessuno degli abitanti dello stabile di via Marsala aveva udito alcunché di sospetto. Quel mattino, inusualmente, il portone era rimasto aperto per le pulizie, un dettaglio che permise all’assassino di introdursi nell’edificio senza destare sospetti. Eppure nessuno ricordava di aver sentito trambusto o le disperate grida d’aiuto della vittima. Il fatto che fosse stata Nada stessa ad aprire la porta suggeriva una tragica familiarità con il suo carnefice. Questa ipotesi portò gli inquirenti a escludere, almeno inizialmente, la pista di un ladro, anche perché nulla sembrava mancare dall’ufficio o dalla borsa della giovane vittima.

Una delle prime tracce individuate fu una serie di macchie ematiche lungo le scale dello stabile, la cui origine, tuttavia, rimase incerta: potevano appartenere all’assassino o alla stessa Nada, durante il suo trasporto d’urgenza in ambulanza. Accanto al corpo martoriato fu rinvenuto un anellino d’oro, non appartenente alla vittima. Nonostante il potenziale interesse investigativo, gli inquirenti ne minimizzarono la rilevanza, arrivando persino, in un secondo momento, a negarne il ritrovamento.
Un altro reperto cruciale fu un bottone, trovato anch’esso vicino al corpo di Nada, presumibilmente appartenente all’assassino. Gli investigatori iniziarono a scandagliare la vita privata della giovane, descritta da tutti come una ragazza irreprensibile, una lavoratrice instancabile, seria e professionale.

Si fece strada l’ipotesi che Nada potesse essere arrivata in ufficio prima del solito quella mattina, sorprendendo l’assassino all’interno dello studio. L’attenzione degli investigatori si concentrò sul computer della vittima ma l’analisi del dispositivo non fornì alcun elemento utile alle indagini. Stessa sorte toccò ai capelli e ai frammenti di pelle trovati sotto le unghie di Nada, dai quali non emersero tracce significative.
Gli inquirenti si trovarono a brancolare nel buio, privi non solo dell’identità dell’assassino e del movente ma anche dell’arma del delitto e della precisa dinamica dell’aggressione. L’esame autoptico rivelò che Nada Cella era stata colpita ripetutamente alla testa, riportando anche la rottura del collo e numerose ferite su tutto il corpo, oltre a un taglio all’inguine. I rilievi sulla scena del crimine furono ulteriormente complicati da un gesto affrettato e maldestro: la madre del commercialista Soracco, forse nel tentativo di dare un senso a ciò che appariva inspiegabile, aveva frettolosamente ripulito lo studio.
I dubbi sull’orario del delitto
Sull’orario esatto del delitto, una testimone residente nello stabile di via Marsala insinuò ulteriori dubbi negli inquirenti, riferendo di aver incontrato Nada intorno alle 8.30 mentre varcava il portone, ampliando così la finestra temporale tra il suo arrivo in ufficio e la macabra scoperta del suo corpo. Un elemento inquietante emerse dall’abitazione della testimone, dove furono trovate numerose macchie di sangue. La donna finì nel registro degli indagati ma dopo un anno di accertamenti fu prosciolta da ogni accusa.
L’efferatezza del crimine suggeriva che l’assassino fosse una persona forte e robusta, capace di esercitare una notevole violenza sulla vittima. Venne stilata una lista di coloro che frequentavano abitualmente lo studio di via Marsala ma anche questa pista portò ad un nulla di fatto. Le indagini si estesero anche a una donna residente nel palazzo di fronte allo stabile di via Marsala, destinataria anch’essa di un’informazione di garanzia. Ma anche questa pista si rivelò un vicolo cieco, portando all’archiviazione della sua posizione.
I sospetti degli inquirenti si spostarono quindi verso il datore di lavoro, Marco Soracco, 34 anni, laureato in Economia e commercio. Soracco respinse con fermezza ogni accusa, dichiarando di aver avuto con la vittima un rapporto strettamente professionale.

Nonostante ciò, la Procura di Chiavari gli notificò un’informazione di garanzia. Tuttavia, come nel caso della testimone, anche la posizione del datore di lavoro fu archiviata dopo circa un anno di indagini infruttuose. Nel frattempo, Soracco trasferì il suo studio in un’altra sede e l’ufficio di via Marsala fu venduto, quasi a voler cancellare per sempre le tracce di quel tragico evento.
Alcuni anni dopo, una flebile speranza sembrò riaccendersi con l’ipotesi di un collegamento tra alcuni reperti del caso Cella e quelli relativi all’omicidio di una prostituta serba, Giordana Matic, uccisa a Genova il 26 ottobre 1999. Per l’omicidio Matic fu accusato un muratore che conosceva anche Nada Cella, frequentando la stessa cerchia di amici. Tuttavia, gli esami del DNA esclusero categoricamente un suo coinvolgimento nel delitto di via Marsala, spegnendo anche questa fragile speranza.
La ricerca estenuante della verità
Mentre le indagini sembravano condurre inesorabilmente a un nulla di fatto, la famiglia di Nada non si rassegnò mai alla mancanza di verità, ipotizzando, senza trovare riscontri investigativi, che a uccidere la ragazza potesse essere stata più di una persona. I genitori lanciarono accorati appelli pubblici, scrivendo persino al Papa e al Presidente della Repubblica, nel disperato tentativo di smuovere le coscienze e sollecitare nuove indagini.
Nuovi, inquietanti particolari sull’omicidio emersero durante una puntata della nota trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?“. Marco Canepa, il medico che aveva eseguito l’autopsia sul corpo di Nada Cella, riferì in diretta che la vittima forse era stata spinta con violenza contro il muro e poi colpita ripetutamente. Tuttavia rimaneva inspiegabile il silenzio dello stabile durante l’aggressione e la caduta del corpo sul pavimento.
La perizia sul computer della venticinquenne rivelò un dettaglio sorprendente: la mattina dell’omicidio, il pc era stato acceso alle 7.51, un orario insolito per Nada, che solitamente non lo utilizzava prima delle 9. Inoltre, alle 8.50 era stata avviata la stampa di due cartelle riguardanti alcuni immobili. Su uno dei due file compariva il nome “Stefano“. In collegamento telefonico con la trasmissione Rai, i genitori di Nada lanciarono un nuovo appello agli inquilini del condominio, esortandoli a parlare con gli inquirenti e a fornire qualsiasi dettaglio potesse aiutare a catturare l’assassino della figlia.

Sempre nel corso della trasmissione, Paolo Bertuccio, un collega del datore di lavoro di Nada, riportò un episodio inquietante risalente al 23 aprile, due settimane prima del delitto. L’uomo raccontò di una conversazione con Soracco durante la quale quest’ultimo avrebbe pronunciato parole enigmatiche: “Fra un po’ in ufficio ci sarà la botta. Ne sentirai parlare, se ne occuperanno i giornali. La signorina andrà via ma la verità verrà a galla”. Il datore di lavoro, tuttavia, smentì categoricamente le affermazioni del collega.
L’archiviazione
Nel 1998 l’inchiesta sulla tragica morte di Nada Cella fu archiviata, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dei suoi cari e un senso di giustizia negata. L’anno successivo, un’altra tragedia si abbatté sulla famiglia Cella: il padre di Nada, Bruno, morì – forse stroncato da un malore – in un incidente d’auto sulla strada che conduceva al cimitero dove era sepolta la figlia. Da tempo soffriva di cuore e l’immenso dolore per la perdita di Nada aveva inesorabilmente aggravato le sue condizioni di salute.
Si dovettero attendere altri cinque lunghi anni prima che il delitto di via Marsala tornasse a far parlare di sé. Nel 2003, un nuovo gruppo di investigatori del commissariato di Chiavari decise di riaprire le indagini sul caso, partendo dai diari di Nada, meticolosi appunti che la giovane teneva con precisione quasi maniacale fino al 5 maggio 1996, il giorno che precedette la sua brutale uccisione.
A questo punto, la vicenda conobbe un altro inatteso colpo di scena. A Genova era in corso un maxiprocesso contro la mafia albanese, con ben 130 imputati. Un dettaglio inquietante emerse: due di questi indagati risiedevano in un monolocale proprio nello stabile di via Marsala 14. Immediatamente furono avviate le indagini per accertare un eventuale coinvolgimento ma anche questa pista si rivelò un’illusione, un altro vicolo cieco in un’indagine sempre più complessa e frustrante.
La riapertura del caso
Una nuova speranza si accese nel maggio del 2021, quando la Procura di Genova annunciò la riapertura del caso di Nada Cella, dichiarando di essere in possesso di nuovi elementi che avrebbero potuto finalmente condurre alla verità. Si trattava di profili di DNA femminili e maschili isolati sulla camicetta della vittima e sulla sedia dell’ufficio, oltre a un’impronta papillare rimasta a lungo sconosciuta.
Nel novembre dello stesso anno arrivò una svolta significativa: una donna di 53 anni (che all’epoca dei fatti ne aveva 28), già indagata nel lontano ’96 ma la cui posizione era stata archiviata in pochi giorni, fu iscritta nuovamente nel registro degli indagati.

Si trattava di Annalucia Cecere, una conoscente di Marco Soracco, nei confronti del quale pare avesse nutrito un interesse sentimentale non corrisposto. La Cecere abitava a poca distanza da via Marsala e sembra che provasse una forte gelosia nei confronti di Nada Cella, tanto da desiderare di prenderne il posto nello studio. Soracco, dal canto suo, aveva sempre negato qualsiasi coinvolgimento sentimentale con la donna.
Un elemento cruciale che portò alla riapertura delle indagini fu la testimonianza di una conoscente che, la mattina del 6 maggio 1996, intorno alle 9, riferì di aver visto Annalucia Cecere in via Marsala, mentre transitava in auto. La stessa circostanza fu confermata da un senzatetto presente nella zona. Fu proprio questa conoscente a telefonare, la mattina del 9 agosto ’96, alla madre di Soracco, riferendole – senza rivelare la propria identità – di aver visto Annalucia Cecere, “con la faccia sconvolta”, nascondere qualcosa sotto la sella del suo scooter, parcheggiato a pochi metri dallo stabile teatro dell’omicidio di Nada Cella. Quella misteriosa telefonata fu registrata dalla segreteria telefonica e consegnata da Soracco agli inquirenti ma l’identità della donna rimase a lungo un mistero. Anche una vicina di casa di Annalucia Cecere confermò di averla vista uscire di casa, la mattina del 6 maggio, in uno stato di agitazione.
I carabinieri ottennero l’autorizzazione dalla Procura per intercettare Annalucia Cecere. Nonostante il ritrovamento nella sua abitazione di alcuni indizi, come bottoni simili a quelli trovati accanto al corpo di Nada Cella e ritagli di giornale riguardanti il delitto di via Marsala, la posizione della donna fu nuovamente archiviata dopo soli nove giorni. Soracco e la madre furono a loro volta indagati per false dichiarazioni, accusati di non aver riferito agli inquirenti tutto ciò che sapevano sulla Cecere.
In quegli stessi giorni, lo scooter di Annalucia Cecere fu sequestrato e sotto la sella vennero trovate tracce di sangue. Ascoltata in Procura nel 2021, la donna dichiarò di aver trascorso la mattina del delitto a fare pulizie in uno studio dentistico di Sestri Levante ma il dentista, interrogato al riguardo, disse di non ricordare con certezza se quanto affermato dalla donna corrispondesse al vero.

Nell’aprile del 2023, fu ripreso in esame anche il contributo di una teste ascoltata all’epoca dal PM Gebbia, che aveva riferito di una confidenza ricevuta dalla Cecere, nella quale quest’ultima esprimeva la sua gelosia nei confronti di Nada Cella. Nell’ottobre del 2023, la Procura chiuse le indagini preliminari, notificando l’avviso di conclusione ad Annalucia Cecere, con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà, sostenendo che avrebbe ucciso Nada Cella proprio a causa della sua gelosia, sia sul piano personale che professionale.
A Marco Soracco e all’anziana madre furono contestati i reati di false dichiarazioni all’autorità giudiziaria e favoreggiamento. Secondo i magistrati, il datore di lavoro avrebbe sorpreso l’assassina nel suo studio ma, in accordo con la madre, avrebbe deciso di non rivelare la verità per non compromettere la propria posizione lavorativa. Nel dicembre dello stesso anno, la Procura di Genova chiese il rinvio a giudizio per i tre indagati. Tuttavia, il 1° marzo 2024, la giudice per le indagini preliminari, Angela Maria Nutini, ha prosciolto Soracco e la madre.
La riapertura del processo a carico di Annalucia Cecere
Lo scorso febbraio è cominciato a Genova il processo per l’omicidio di Nada Cella, che vede come unica imputata Annalucia Cecere. Ieri mattina, 8 maggio 2025, l’aula magna del palazzo di giustizia di Genova ha fatto da sfondo a una testimonianza fiume, protrattasi per oltre tre ore, da parte di Antonella Delfino Pesce, la criminologa che ha portato alla riapertura del caso di Nada Cella. La sua determinazione ha condotto al processo attualmente in corso che vede Cecere, ex insegnante trasferitasi da Chiavari poco dopo il brutale omicidio di via Marsala, come unica imputata per quel crimine rimasto a lungo irrisolto.

L’ultima udienza si è concentrata quasi interamente sul minuzioso lavoro svolto dalla dottoressa Delfino Pesce tra il 2017 e il 2019. Ciò che inizialmente era nato come una tesina per un master universitario ha gradualmente assunto proporzioni sempre più ampie, trasformandosi in una vera e propria indagine sul campo, caratterizzata da un approccio diretto e, in una fase delicata, anche sotto copertura, con la principale sospettata, Annalucia Cecere.
Un momento particolarmente significativo della sua attività investigativa è stato l’incontro avvenuto nel luglio del 2019 nei pressi di Boves, località in cui risiedeva l’imputata. In quell’occasione, Antonella Delfino Pesce, accompagnata da altre due persone, scelse di non rivelare la sua vera identità, presentandosi con la scusa di un interesse comune per il mondo della scuola. L’atmosfera cordiale e distesa si incrinò bruscamente nel momento in cui la criminologa pronunciò il nome di Adelmo Roda, figura legata al passato chiavarese della Cecere, essendo stato il suo fidanzato all’epoca dei fatti. «Da quel momento con me è diventata ostile», ha dichiarato la Delfino Pesce, descrivendo un cambiamento radicale nell’atteggiamento della donna.
Le conseguenze di quell’incontro non tardarono a manifestarsi. Già durante il viaggio di ritorno da Boves, la criminologa fu bersaglio di una serie di messaggi minatori inviati dalla Cecere tramite WhatsApp. «Quasi duecento in due giorni tra chiamate, vocali e Sms», ha precisato la Delfino Pesce, sottolineando la veemenza e la persistenza delle intimidazioni. Alcuni di questi messaggi, dal contenuto esplicito e minaccioso, sono stati riprodotti in aula per la Corte presieduta dal giudice Massimo Cusatti, rivelando un clima di forte ostilità e intimidazione: «Se ti ripresenti qui il mio cane ti spappola viva. Lo faccio riaprire io il caso».
Ma le minacce non si limitarono a questo. I messaggi continuarono con toni sempre più aggressivi e accusatori: «Ho una cazzimma, hai paura vero? Adesso sono qui… non ti preoccupare. Ma chi ti manda, come fai a sapere i c… miei! Sei bugiarda? Non mi fai fessa, tu ti riferivi a Marco Soracco perché sai qualcosa brutta b… Adesso parli perché sei complice come lui di omicidio di Nada Cella. Mi devi dire perché mi hai cercato. Sicuramente hai partecipato anche tu, hai complottato con lui per uccidere quella povera ragazza». L’escalation culminò in una telefonata nel cuore della notte, durante la quale la Cecere proferì una minaccia diretta e inquietante: «Io lo so dove abiti, domani mattina mi trovi davanti al cancello». Di fronte a questa crescente ostilità e alle esplicite minacce, Antonella Delfino Pesce prese la decisione di installare un sistema di videosorveglianza nella sua abitazione a Bari, temendo per la propria incolumità.
Il lungo e articolato esame e controesame condotto in aula non si è limitato alle minacce subite dalla criminologa ma ha toccato un altro punto nevralgico dell’intera indagine: il ruolo e le dichiarazioni di Marco Soracco.
L’amicizia con Marco Soracco
La Delfino Pesce ha descritto come il suo rapporto con Soracco si fosse evoluto in una vera e propria amicizia, con frequenti pranzi e cene insieme. Tuttavia, questa dinamica cambiò radicalmente quando il suo lavoro, inizialmente circoscritto a una tesi universitaria, si trasformò in un’indagine penale a tutti gli effetti. La tensione raggiunse l’apice in occasione della convocazione di Antonella Delfino Pesce presso la Procura di Genova, nel luglio del 2021, per essere sentita come persona informata sui fatti, dopo che il caso era stato ufficialmente riaperto.
La sera precedente alla sua deposizione, la criminologa si recò a cena con Soracco. «Lui era nervoso», ha raccontato in aula, ricordando la crescente inquietudine dell’uomo. Il giorno seguente, mentre Soracco la stava accompagnando in auto verso Milano, da dove Delfino Pesce avrebbe dovuto prendere un aereo, scoppiò una discussione dai toni sempre più accesi. La criminologa incalzò Soracco, esprimendo la sua convinzione che non potesse essere vero che non ricordasse o non sapesse dettagli significativi riguardanti Annalucia Cecere, sottolineando la sua intelligenza e la sua ottima memoria. «A te di Nada non te ne è mai fregato niente», gli disse la Delfino Pesce, provocando una reazione inaspettata in Soracco: «Mi ha rovinato la vita», fu la sua risposta.
L’insistenza della criminologa continuò, esortando Soracco a recarsi dalla polizia o dal suo avvocato per raccontare la verità. A quel punto, secondo la testimonianza, Soracco scoppiò in lacrime, pronunciando parole confuse: «Non so niente o forse ho rimosso». Tuttavia, in un momento successivo, parlando proprio della Cecere, aggiunse un commento significativo: «Può essere pazza e pericolosa». L’ultimo incontro tra i due fu caratterizzato da un’ulteriore reticenza da parte di Soracco, che, interrogato sulla Cecere, utilizzò espressioni simili: «La memoria non ce l’ho per tutto».
Un altro elemento cruciale emerso dalla deposizione di Antonella Delfino Pesce riguarda il ritrovamento di un documento che si è rivelato una vera e propria svolta per le indagini: il verbale dei carabinieri risalente al 1996 relativo al sequestro di alcuni bottoni nell’abitazione di Anna Lucia Cecere. La particolarità di questi bottoni risiedeva nella loro sorprendente somiglianza con quello rinvenuto sul luogo del delitto di Nada Cella. Questa scoperta, ha sottolineato la criminologa, ha rappresentato un tassello fondamentale per rimettere in discussione le conclusioni delle indagini precedenti e riaprire la strada verso la verità.

Tutto questo lavoro investigativo, culminato nella riapertura del caso e nel processo attuale, è stato reso possibile, come ha tenuto a precisare Antonella Delfino Pesce, grazie alla fiducia e al sostegno della madre di Nada Cella, Silvana Smaniotto, che le ha fornito con coraggio e speranza i faldoni contenenti gli atti d’indagine. La criminologa ha incontrato più volte l’anziana donna, spesso accompagnata dall’avvocata di parte civile Sabrina Franzone, in un percorso tenace e congiunto verso la ricerca della giustizia per la povera figlia.