Ogni anno centinaia di lavoratori muoiono tra cantieri, campi e trasporti. Le istituzioni guardano, i datori di lavoro restano impuniti.
Si resta basiti, increduli di fronte al numero sempre crescente di morti sul lavoro. E’ da anni che la cronaca se ne occupa, ma la trama è sempre la stessa: si muore, si piange il defunto, si porgono finte e retoriche condoglianze ai familiari delle vittime da parte delle autorità e la giostra continua fino al prossimo cadavere. Un copione che si ripete all’infinito, come un disco rotto. E le istituzioni preposte alla prevenzione e alla soluzione del dramma, come le stelle, stanno a guardare. La legge prevede che in caso di decesso sul lavoro, il datore di lavoro deve comunicarlo all’Istituto Nazionale contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), comprese le morti “in itinere”, ossia nel tragitto casa-lavoro.

Ma non tutte le denunce vengono riconosciute dall’INAIL, ma la stampa ne riporta la totalità. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani (OCPI) è un istituto di ricerca fondato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, con sede a Milano, che si occupa di promuovere una migliore gestione della finanza pubblica e una maggiore comprensione dei conti pubblici in Italia. Secondo i dati diffusi dal 2008 al 2023 i morti sono calati, soprattutto per il numero basso fino al 2014, per poi restare stabile sino al 2019. L’impennata è avvenuta nel 2020, a causa della pandemia.
Se si confrontano solo i casi riconosciuti dall’INAIL il quadro risulta meno drammatico. Negli ultimi 15 anni il numero delle vittime ogni 100mila occupati è un po’ calato. Inoltre, in relazione ai dati nel lungo periodo (quelli accessibili riguardano i casi riconosciuti), è emerso che si è passati da oltre 20 morti negli anni ’60, ai 10 negli ’80, 8 nel ’90, 6 negli anni 2000 e 3,6 in quelli 2010.

I settori più vulnerabili sono edilizia, trasporti e agricoltura. Il fenomeno si manifesta maggiormente nelle piccole imprese: 3 decessi ogni 100mila lavoratori. Nelle medie imprese 2,5 e nelle piccole 2,2. Nelle grandi imprese il tasso è ancora più basso: 1,1. I dati diffusi, tuttavia, possono risentire delle ispezioni a cura dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), un’agenzia del governo italiano che si occupa della vigilanza in materia di lavoro, legislazione sociale, contributiva, assicurativa e della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Le superiori denunce, con molta probabilità, possono dipendere dall’aumento dell’organico deputato alla sicurezza, quasi raddoppiato negli ultimi due anni. In Europa, secondo l’Eurostat, l’ufficio statistico continentale, nel computo totale non sono contemplati i casi in itinere e i non indennizzati. L’Italia ha sempre registrato, quindi, una percentuale di morti sul lavoro superiore rispetto alla media europea. Il picco si è avuto nel biennio 2020-2021, perché il nostro Paese ha registrato le morti per Covid come verificatesi sul lavoro. Inoltre variano molto le modalità di registrazione dei decessi.
Ad esempio i Paesi Bassi non contemplano gli incidenti in itinere, per cui la percentuale è più bassa di quella del Belpaese. Mentre al contrario, in Francia è più alta per un fatto meramente statistico; per ogni infortunio sul luogo di lavoro, spetta alla direzione aziendale provare il contrario. Ma al di là di percentuali, sistemi di rilevazione statistica, quello che stride è che i decessi non capitano per colpa del destino cinico e baro, ma per le inadempienze dei datori di lavoro, di imprese sommerse e, infine, per le omissioni dei controlli da parte delle istituzioni preposte.
Ma i responsabili di quelli che possono essere valutati come “omicidi colposi” restano a piede libero e, quando si conclude il procedimento giudiziario, le pene sono irrisorie. Le uniche certezze, incontrovertibili sono i morti!