Moda e sostenibilità ambientale: come si controllano le aziende del “Fast Fashion”?

La moda “rapida” e a basso costo contribuisce alla crisi ambientale con produzione intensiva e deforestazione. Finiremo sommersi dai rifiuti?

Negli ultimi anni si è diffusa a macchia d’olio la pratica del “Fast Fashion”, ossia produrre capi di abbigliamento rapidamente e a basso costo, spesso seguendo le tendenze delle passerelle. È una strategia adottata da grandi catene di distribuzione come H&M, Primark, Zara, Topshop, Xcel Brands, Peacocks, e altre, tra cui l’azienda cinese Shein che è arrivata a 2 miliardi di dollari di profitti nel 2023. Questo modello incoraggia ad acquistare più del necessario, portando a un consumo eccessivo e a un aumento dei rifiuti.

Nella corsa a produrre velocemente e a basso costo, la qualità dei capi spesso ne risente, creando un ciclo vizioso di consumo e smaltimento continuo. L’80% va dritto in discariche e inceneritori in Europa o spedito nei Paesi a sud del pianeta e meno dell’1% viene riciclato. Ma come vengono effettuati i controlli di sostenibilità ambientale?

Earthsight è un’organizzazione senza scopo di lucro che attraverso report investigativi primari e indagini approfondite denuncia i crimini ambientali e sociali, le ingiustizie e i legami con il consumo globale. Ha pubblicato un report, basato soprattutto sull’azienda cinese Shein. Ebbene, nonostante fosse provvista del certificato di sostenibilità dell’etichetta Better Cotton (un gruppo di governance senza scopo di lucro per la promozione di standard migliori nella coltivazione del cotone in 22 Paesi), di fatto ha contribuito alla deforestazione e al disboscamento illegale delle terre. Il management di questa azienda, da anni, collabora con dei mostri sacri del fast fashion come H&M e Zara. Dall’indagine sono emerse le conseguenze negative delle coltivazioni intensive del cotone in Brasile ma anche la complicità, nel peggiore dei casi, o la superficialità nel migliore, della società di certificazione Better Cotton e le disattenzioni di marchi multinazionali come Inditex e H&M.

Attualmente il Brasile è al secondo posto come Paese esportatore di cotone per la moda al mondo e si prevede che nel 2030 possa arrivare al primo, scavalcando gli USA. In situazioni di questo genere, malgrado la crescita vertiginosa della produzione brasiliana di cotone, appaiono oscuri i rapporti commerciali, poiché le aziende di fast fashion, furbescamente, non acquistano dai produttori del Cerrado, la grande savana tropicale del Brasile. È una regione caratterizzata da una grande biodiversità di fauna e flora. Secondo il WWF è la savana più biologicamente ricca nel mondo. Il report ha individuato 816 mila tonnellate di cotone trasferito a dei fornitori di H&M e di Zara, i cui capi hanno raggiunto attività commerciali in Europa e negli USA. Come accade nelle grandi aziende è scattato immediatamente il processo difensivo delle due aziende in questione scaricando le responsabilità sulla società di certificazione Better Cotton. Le aziende di fast fashion, come tutte quelle di altri settori, hanno la capacità di costruire una corazza attraverso cui non trapela nulla dei loro meccanismi interni.

Le società di certificazione hanno dimostrato di non riuscire (o non volere) stabilire la sostenibilità delle aziende. Come si fa a fidarsi delle dichiarazioni di sostenibilità che le aziende fanno ad ogni piè sospinto? E’ come chiedere all’oste “Com’è il vino?”. La risposta non può che essere benevola! E’ chiaro che per dare una soluzione al problema è necessario l’intervento congiunto di istituzioni politiche, aziende interessate e società di certificazione, per definire nuovi standard di tracciabilità e per ridurre la deforestazione. Perché il processo produttivo della fast fashion in queste condizioni non potrà, mai, avere una relazione benefica con l’ambiente!

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa