Milano – A processo i rapitori di Cristina Mazzotti: giustizia dopo 47 anni?

Dopo 47 anni la Procura di Milano chiede il rinvio a giudizio per quattro dei complici coinvolti nel sanguinoso rapimento finora riusciti in un modo o nell’altro ad evitare il verdetto. Chi sono le persone che finiranno alla sbarra?

Milano – Pochi vicende di cronaca hanno straziato l’opinione pubblica come quella di Cristina Mazzotti, a malapena 18enne durante il dannato 30 giugno 1975 in cui una banda di malviventi legati alla ‘ndrangheta, il giorno in cui aveva festeggiato il diploma, la rapirono per chiuderla in una buca angusta da cui la ragazza non uscì mai più viva. Ora, dopo quasi mezzo secolo, 13 condanne e vicende processuali a non finire, gli ultimi quattro complici (tra cui i tre esecutori materiali) saranno consegnati alla giustizia: si tratta di Giuseppe Morabito, Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia, accusati di essere “ideatori” ed “esecutori” dell’orribile delitto. Scopriamo i loro volti e come hanno vissuto in questi cinque decenni, in una storia che ci riporta agli anni bui della Milano dei sequestri, dell’ascesa della mafia al nord e la genesi del mercato della droga.

La dinamica dei fatti: Cristina aveva appena passato una serata in compagnia del fidanzato e della sua migliore amica per festeggiare il conseguimento della maturità classica. Mentre tornano a casa in auto vengono fermati da una Fiat 125 da cui scendono uomini armati, dal volto coperto. Chiedono di Cristina Mazzotta: la ragazza si consegna immediatamente per evitare guai agli altri due. Viene portata in una cascina a Castelletto Ticino, dove i complici della banda avevano realizzato una recinzione di giunchi per evitare occhi indiscreti. Nel frattempo gli stessi balordi preparavano il suo “giaciglio”: una buca umida non più grande di una bara dove l’unico contatto con il mondo esterno è costituito da un tubo di cinque centimetri…

Il padre di Cristina, Helios Mazzotti, è infatti un uomo ricco: ha fatto i soldi come broker nell’ambito del grano e dell’alimentare. Lo scopo è, ovviamente, il riscatto: siamo negli anni atroci della Milano dei sequestri, in cui la mafia calabrese collabora con elementi locali per il business dei rapimenti. Con quei soldi sporchi e macchiati di sangue la criminalità organizzata costruirà il proprio impero sul mercato della droga. Ma i rapitori sopravvalutano enormemente il patrimonio dei Mazzotti, con una esorbitante richiesta di 5 miliardi di lire. Il padre si arrabatta per trovare 1 miliardo e mezzo: il 1 agosto Helios consegna il denaro.

Impossibile non avere i brividi di fronte a questa fotografia…

Quello che non sa è che sua figlia è già morta: il giorno prima, per l’esattezza. Cristina non ha retto il trattamento disumano e la continua esposizione a forti dosi di Valium ed altri farmaci sedativi con cui l’hanno drogata. Una crudele beffa della sorte che, ovviamente, non impedisce ai sequestratori di recuperare il denaro. I rapitori potrebbero anche cavarsela ma commettono un errore: depositano una grossa somma in una banca svizzera. Gli impiegati notano la transazione e, insospettiti, informano la polizia. Inizia la vicenda giudiziaria.

Identikit dei quattro sequestratori

Nel corso del tempo sono stati formulati 8 ergastoli su 13 condanne: ma perché questi ultimi quattro complici sarebbero stati “graziati”? Innanzitutto non si poteva provare, fino ad oggi, chi fossero gli esecutori materiali. In secondo luogo, nel 2012, i reati contestati ed eventualmente da contestare finivano in prescrizione. Ma la partita è stata riaperta da un provvedimento che, nel 2015, annullava la prescrizione per l’omicidio volontario. L’avvocato della famiglia Mazzotti riapriva immediatamente la procedura per ottenere giustizia.

Il “Tiradritto”: in prigione da quasi vent’anni, vecchio e molto malato

Innanzitutto abbiamo Giuseppe Morabito, un nome nuovo nel processo: il boss reggino avrebbe prestato una delle due automobili con cui fu compiuto il fattaccio (una Alfa Romeo). Detto U tiradrittu, l’ormai ergastolano, vecchio e molto malato, è stato uno dei numeri uno della ‘ndrangheta che conta. Arrestato dopo 12 anni di latitanza dai carabinieri, sconta la galera dal 2004 in regime di carcere duro, e le sue richieste di scarcerazione difficilmente saranno accolte. L’inchiesta ha stabilito che Morabito è stato tra gli ideatori del sequestro e ha contribuito materialmente alla realizzazione del reato, attraverso l’auto che ha fatto da “staffetta” portando Cristina alla sua ultima destinazione.

Il secondo nome importante è quello di Demetrio Latella, per la semplice ragione che è a causa delle sue ammissioni che il processo è in atto. L’uomo ha infatti ammesso il proprio ruolo di sequestratore facendo i nomi di due complici. Latella fu incastrato dal ritrovamento delle sue impronte digitali: nonostante la confessione, la prescrizione del 2012 lo aveva salvato. Nel frattempo, dopo una lunghissima carcerazione di 32 anni (ancora una volta, dovuta a un sequestro terminato con la morte accidentale del rapito…) si era rifatto una vita, trasferendosi a Novara dove vive con la compagna e lavora per una ditta del luogo. Insomma, completamente uscito dal giro della Mala: ma il suo tardivo pentimento difficilmente lo aiuterà in sede processuale, nonostante la “costernazione” dei suoi avvocati. Nel frattempo, Latella è anche stato accusato di essere uno dei killer del magistrato Bruno Caccia, ucciso dalla mafia in quello che è stato considerato un omicidio di stato. La sua vicenda si intreccia dunque a pagine oscure della nostra storia repubblicana. Fu lui a guidare la Mini 125 con cui avvenne il rapimento di Mazzotti.

Rocco Schirripa

Il terzo nome invece non ha avuto alcun pentimento, tardivo o meno. Si tratta di Giuseppe Calabrò, detto U’ dutturicchiu, è un nome di peso della mala lombarda. Scarcerato nel 2016, ha collezionato condanne per spaccio di cocaina, fiorente mercato che lo vede come uno dei mercanti più rappresentativi. Ma ha avuto anche grossi guai per altri tentativi di sequestro e per traffico d’armi. Fu lui a impugnare la pistola con cui furono minacciati i ragazzi.

Antonio Talia è, come Calabrò, esponente del clan Epaminonda. 71 anni, è stato membro della cosca di Africo, diretta per anni da Morabito: un suo uomo, dunque, in tutto e per tutto. Sul suo passato c’è un velo di oscurità: meno noto del dutturicchiu e dell’ex boss, e meno compromesso di Latella, non ci sono grosse informazione sulla sua situazione giudiziaria, men che meno su che cosa abbia fatto in questi anni.

Probabilmente alcuni imputati, ormai anziani, non vedranno la fine del processo. Ma è rilevante osservare che, dopo quasi cinquant’anni, una vicenda giudiziaria che ha comportato la morte di una ragazza innocente si chiuderà con i colpevoli dietro le sbarre. Almeno speriamo.

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