La libertà di stampa non è certo una peculiarità del nostro Bel Paese. Qualche volta però la giustizia riconosce la verità e assolve i giornalisti che hanno raccontato fatti con tanto di prove. E poi non sono forse i cronisti i cani da guardia della democrazia? La strada è ancora lunga e irta di ostacoli quella che porta verso un’informazione libera e pluralista.
Roma – A rischio la libertà di stampa. Il 14 novembre scorso il tribunale di Lecce ha posto fine alla incresciosa vicenda, “perché il fatto non sussiste”, dei giornalisti Danilo Lupo, Mari Tota e Francesca Pizzolante, dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa nei riguardi dell’ex sottosegretaria del Ministero del Lavoro, Teresa Bellanova, all’epoca in forza al Pd. I tre cronisti si erano occupati, nel 2014, rispettivamente per La7, Il fattoquotidiano.it e Il Tempo, del caso dell’ex addetto stampa della Bellanova, che aveva inoltrato denuncia al tribunale per non avere usufruito del giusto compenso, né di aver avuto il giusto inquadramento.
La vicenda si concluse con l’accoglimento delle richieste del lavoratore, mentre per i giornalisti il pubblico ministero aveva chiesto sei mesi di reclusione per aver diffamato a mezzo stampa la sottosegretaria. Un cronista non può rischiare il carcere nell’esercizio del suo lavoro per aver pubblicato notizie, che nel caso in esame, erano vere e di interesse pubblico. Non si può lavorare col pericolo di aver sulla testa una spada di Damocle, perché si innesca un processo di congelamento dell’attività di cronista. Il giornalista Daniele Lupo, ha dichiarato, infatti, che dal 2014, quando è cominciata la vicenda e fino ad oggi 2022, in cui si è chiuso il sipario, non si è più interessato a vicende relative alla Bellanova. La minaccia del carcere limita, di fatto, lo spazio di libertà del cronista. La vicenda, oltre a confermare la lunghezza dei processi, perché una querela per diffamazione non può e non deve durare otto anni, evidenzia le gravi défaillances delle leggi italiane sulla diffamazione.
Il codice penale italiano prevede per il reato di diffamazione a mezzo stampa una pena che varia dai sei mesi a tre anni. C’è da dire, tuttavia, che queste pene detentive sono state considerate incostituzionali dalla Corte Costituzionale nel 2021, tranne casi di eccezionale gravità. La Suprema Corte, inoltre, ha esortato il Parlamento ad avviare una riforma globale delle disposizioni relative alla “diffamazione” sia civile che penale. L’auspicio è che questa sentenza possa rivelarsi un efficace deterrente per chiunque avesse intenzione di utilizzare le querele o le richieste di risarcimento danni come arma impropria nei confronti dei giornalisti e delle aziende editoriali in generale per invitarli a non pubblicare notizie che darebbero fastidio al potente di turno.
La proposta di legge per il contrasto delle querele bavaglio dovrebbe essere approvata al più presto, se si ha a cuore la libertà di stampa. Il nuovo governo in questo momento è in altre faccende affaccendato, dalla crisi energetica alla gestione dei migranti, per mostrare interesse verso una tematica di questo tipo. Anche perché sarebbe come tapparsi le ali da soli o darsi la zappa sui piedi. Nel nostro Paese la libertà di stampa non ha mai suscitato grandi passioni, nel senso che, spesso il lavoro da cronista viene esercitato sotto forma di impiegato aziendale, per cui non si muove foglia che azienda non voglia.
Le concentrazioni editoriali in mano a pochi gruppi e il business della pubblicità rendono lo scenario ancora più preoccupante. Il reato di “diffusione di riprese e registrazioni fraudolente” contestato, di recente, alla professoressa che filmò l’incontro, presso l’autogrill di Fiano il 23 dicembre 2020, tra Matteo Renzi e l’ex funzionario dei servizi segreti Marco Mancini, conferma che si vuole una stampa sotto controllo governativo. Come scrisse Alber Camus: “Una stampa libera può essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non potrà mai essere altro che cattiva”. Meditate gente, meditate!