“L’elogio dell’imperfezione” e la sua importanza per la salute mentale

L’autobiografia di Rita Levi Montalcini diventata traccia dell’esame di maturità ci racconta le tante virtù del non essere impeccabili.

Roma – Il perfezionismo nuoce gravemente alla salute. La società odierna sembra essere mossa dalla continua ricerca di performance ai massimi livelli e ogni qualvolta non si raggiunge l’obiettivo si cade in uno stato di profonda prostrazione. Ed invece si avverte la necessità di proporre l’ “Elogio dell’imperfezione”, come titolò una sua autobiografia il premio Nobel per la medicina Rita Levi-Montalcini, che così scrisse “L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo”. Dunque, l’imperfezione come virtù e non un vizio da debellare. Una condizione da sempre necessaria per correggersi, valutare gli errori, intraprendere nuovi percorsi per cercare soluzioni diverse.

Ultimamente l’elogio dell’imperfezione ha suscitato curiosità per il fatto che è stato una delle tracce di italiano agli ultimi esami di maturità. Quando la ricerca della perfezione sfocia nella patologia, qualsiasi scostamento da essa assume contorni da tragedia greca. Già Karl Popper, tra i maggior filosofi ed epistemologi del secolo scorso nel suo saggio “Congetture e confutazioni” riteneva che la conoscenza umana avviene per tentativi ed errori, per cui non è importante l’origine di ipotesi e teorie, bensì la possibilità per chiunque di poterle eventualmente confutare mediante il controllo empirico. In definitiva il progresso scientifico si ottiene col rifiuto delle false teorie, piuttosto che la conferma di quelle vere. Ma se queste sono enunciazioni teoretiche, sono i risvolti pratici a suscitare allarme. La psicologia moderna ritiene che la ricerca spasmodica della perfezione può trasformarsi in tossicità e produrre una continua insoddisfazione.

Rita Levi Montalcini

Questa situazione rappresenta il prodromo di un’ansia premonitrice per il timore di commettere errori e di dover subire critiche altrui. E’ chiara che una dose non eccessiva di perfezionismo può essere uno stimolo a fare sempre meglio, ma l’aspetto patologico produce inazione. Questo è un tasto molto dolente, perché in quanto esseri umani abbiamo bisogno della verifica e non poterla attuare innesca un meccanismo in cui l’ansia si riproduce all’infinito. Sono gli effetti per la salute che destano preoccupazione. Sono stati definiti tre livelli di perfezionismo: quello prodotto dall’interno, quello trasferito agli altri e, infine, quello assimilato dal gruppo sociale di riferimento. E’ comprensibile che riuscire ad appagare le molteplici previsioni può produrre un corto circuito di ansia e depressione con tutti i danni prevedibili.

Sono stati gli anni ’80 del secolo scorso, quando si impose con prepotenza una cultura fondata su un individualismo sfrenato e una competizione esasperata, ad accelerare il processo del perfezionismo. Quando i sintomi diventano molto seri, il fenomeno può provocare disordini alimentari e quelli relativi all’immagine del corpo. Inoltre, i perfezionisti patologici manifestano idiosincrasia per le critiche e apprensione per le prove da attuare. Succede che restano emotivamente paralizzati, tanto da non provarci nemmeno. Solo così si è sicuri di non sbagliare. Questa condizione è l’anticamera dello stress, una delle cause del burnout. Molto meglio abbandonarsi alle anomalie della vita, allo scorrere degli eventi senza la presunzione di dominarli per forza. Soprattutto persuadersi che l’etimologia di perfezione è associata a “chiusura”, ovvero, “mancanza di spazio”. L’unica perfezione a cui tendere è quella delle tante imperfezioni, altrimenti ci si ammala!

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