Il processo di polarizzazione che porta alla creazione di grandi centri urbani e megalopoli, ha condotto man mano a trascurare la enorme ricchezza generata dai poli più piccoli. Questi rappresentano non solo una fonte preziosa di risorse economiche e produttive, ma permettono al contempo di decongestionare aree sempre più invivibili.
Roma – “Piccolo è bello”, si potrebbe dire, per parafrasare il titolo del libro di Ernst Friedrich Schumacher, pubblicato nel 1973. Si trattò di una raccolta di brevi saggi a sfondo economico, in cui già emergevano alcuni aspetti dell’ecologismo. A tal proposito, infatti scrisse: “Al giorno d’oggi soffriamo di un’idolatria quasi universale per il gigantismo. Perciò è necessario insistere sulle virtù della piccola dimensione, almeno dovunque essa sia applicabile”.
E anche il PIL (Prodotto interno lordo), la ricchezza di una nazione, diventato obiettivo da raggiungere a ogni costo, si ottiene nei piccoli centri urbani. Sono dati emersi da un’elaborazione dell’Ufficio Studi della CGIA, Associazione Artigiani e Piccole imprese di Mestre per conto dell’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali (ASMEL). Nei centri con meno di 20mila abitanti si trova il 41% del totale delle imprese e dei lavoratori dipendenti, esclusi quelli del pubblico impiego. Qui si produce il 39% del valore aggiunto nazionale.
Per quanto riguarda i Comuni sotto i 100mila abitanti, le imprese sono il 71%, in cui sono impiegati il 69% degli addetti e il PIL raggiunge il 66%, In pratica le attività produttive sono ubicate nei Comuni a ridotta popolazione. Secondo una nota diffusa dall’ASMEL, il tanto decantato PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), invece è orientato verso i grandi agglomerati urbani. Per i più piccoli invece, l’accesso ai finanziamenti si presenta come un percorso irto di difficoltà. In questi territori con un’alta concentrazione di attività economiche, si palesano una serie di criticità: ambiente, sicurezza delle strade, mobilità, infrastrutture e un trasporto locale efficiente, che avrebbero bisogno di politiche pianificate su larga scala. Tuttavia, la scarsità delle risorse umane e finanziarie impediscono una risposta all’altezza dei bisogni. Circa la metà del PIL totale del Paese è prodotto, quindi, nei piccoli e medi Comuni.
Se consideriamo solo la manifattura industriale, nei centri con una popolazione inferiore a 20mila abitanti, ci sono il 54% delle imprese e il 56% di lavoratori, con un PIL addirittura del 53%. Al contrario, il settore dei servizi domina nelle grandi città. In quelle con oltre i 100mila abitanti, questo settore raggiunge il 32%, gli operatori il 37%, mentre il valore aggiunto è del 44%. La speranza è che il nuovo Governo possa ripensare alle destinazione dei fondi del PNRR, destinandone una corposa quota alle piccole e medie realtà demografiche.
Questo perché, se la transizione ecologica vuole essere tale e non solo una locuzione con cui far bella figura ai convegni, nei talk show e nelle interviste dei politici, non può non attuarsi nei piccoli centri. Con tutta la bellezza paesaggistica di piccoli e medi Comuni di cui è fornita l’Italia non si può perdere quest’occasione. Certo vanno potenziate le infrastrutture e l’accesso a Internet. E, soprattutto, andrebbero liberate le nostre città dalle periferie in cui la marginalità umana, sociale ed economica sono il loro tratto distintivo. Così da incentivare il percorso verso luoghi meno popolati, perché piccolo è bello.