INCHIESTA: il ministro Bellanova dovrebbe sapere che i lavoratori nei campi ci sono già ma tanti sono invisibili e, in questo periodo di emergenza, lo stanno diventando ancora di più. Intervenire subito sul caporalato con uno stretto giro di vite. Più controlli e maggiore repressione del fenomeno criminale in mano alla mafia.
“Servono migranti per farli lavorare nei campi. Il virus ci spiega che non servono approcci ideologici”. Così il ministro Teresa Bellanova teorizza un reclutamento di massa degli stranieri in agricoltura.
Bellanova, e chi meglio di lei, dovrebbe sapere che i lavoratori nei campi ci sono già, ma tanti sono invisibili e, in questo periodo di emergenza, lo stanno diventando ancora di più. Ci sono centinaia e centinaia di uomini e donne che il decreto Bossi-Fini prima e i decreti Sicurezza dopo, hanno condannato all’invisibilità. Loro continuano a lavorare, senza dispositivi di protezione, ovviamente. La soluzione prospettata dal ministro Bellanova potrebbe avere un senso se si riuscissero a garantire contratti in grado di dare stabilità ai lavoratori o, quantomeno, tutelarli. Altrimenti si rischia di darli ancora una volta in pasto ai “lupi”, con contratti occasionali che non danno dignità e aumentano le disuguaglianze.La soglia prevista dal decreto Cura Italia delle 50 giornate lavorative come minima contribuzione per accedere al bonus di 600 euro, ad esempio, esclude proprio gli invisibili. Molti lavoratori, infatti, lamentano l’impossibilità di raggiungere la soglia, pur avendo lavorato per molto più di 50 giorni, perché i datori sono stati inadempienti e non hanno dichiarato tutte le giornate effettivamente svolte.
Il ministro potrebbe invece intervenire con estrema urgenza per togliere i lavoratori, stranieri e italiani, dalle mani dei caporali, a cui nulla importa della pandemia in corso. Prova ne è ciò che è accaduto il 19 marzo scorso quando a Terracina, nel corso dei controlli anticontagio, sono stati fermati tre furgoni con 25 lavoratori agricoli, stranieri e italiani, sprovvisti di mascherine e guanti, stretti gli uni agli altri. Quello che potrebbe accadere, dalla piana di Gioia Tauro alla fascia trasformata del ragusano, è inimmaginabile: un solo contagiato condannerebbe centinaia e centinaia di altre persone. Lavoratori costretti a vivere in abitazioni fatiscenti, molti in magazzini dentro le aziende per cui lavorano, senza cibo, senza acqua per lavarsi e per bere. Una condizione che accomuna tutte quelle realtà territoriali dove, nel corso degli anni, si sono creati veri e propri ghetti di lavoratori, costretti a vivere ammassati in baraccopoli o stalle senza alcuna tutela. Allora la priorità non è ricercare altri lavoratori, ma andare a scovare quelli che lavorano in nero e che vengono sfruttati, salvarli da una situazione di pericolo e agire nei confronti dei loro sfruttatori. “… I ghetti della piana di Gioia Tauro” dicono i rappresentanti di Mediterranean Hope “…Vanno smontati e i lavoratori messi al sicuro…”.
L’appello lanciato alle istituzioni, da Nord a Sud, è che quanto meno si porti a queste persone acqua corrente e potabile, del cibo. Lo ha chiesto nei giorni scorsi anche Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB (Unione sindacale di base) e simbolo della lotta al caporalato; la posizione del sindacato è quella di regolarizzare tutti i lavoratori che in questo momento non hanno documenti. Questa potrebbe essere l’occasione del riscatto:
“… Serve un piano abitativo per centinaia di famiglie di lavoratori agricoli, bisogna adibire a questo scopo tutte le strutture comunali e provinciali in disuso, bisogna costruire un piano comunale per garantire affitti calmierati, permettendo alle famiglie dei lavoratori di vivere in ambienti dove almeno ci siano l’acqua e la luce…”.
Lo dice Michele Mililli, responsabile del coordinamento lavoratori agricoli dell’USB Ragusa. Lì, nella zona trasformata tra i comuni di Vittoria e Acate, sono presenti migliaia di lavoratori stranieri sfruttati, e non solo sul lavoro. Sono decine e decine i casi venuti alla ribalta, come quello, a giugno 2019, della 13enne ceduta dalla mamma a un ottantenne e ad altri lavoratori in cambio di una doccia o un posto dove dormire.
Secondo un report pubblicato nel 2018 dalla diocesi di Ragusa, nella piccolissima frazione di Marina di Acate, un’azienda agricola su due utilizza lavoratori in modo illegale e paga gli operai con paghe comprese tra i 2,5 e i 3 euro l’ora. Rispetto ad altre zone del Paese, dove il lavoro nelle campagne ha soprattutto caratteristiche stagionali, nel ragusano il fenomeno del caporalato è più strutturale: ogni anno, infatti, nelle serre ci sono due o tre campagne produttive per le quali servono agricoltori attivi per almeno 250 giorni l’anno. Qui si sono sistemate molte famiglie, a volte composte anche da più di dieci persone, che vivono all’interno di vere e proprie catapecchie, con i bagni che generalmente si trovano all’esterno e sono delle latrine. Le case, se così si possono chiamare, vengono concesse in cambio di somme esorbitanti se paragonate allo stato in cui si trovano: alcuni arrivano a pagare anche 400 euro di affitto. Senza acqua e luce, confort che hanno un costo a parte, decurtato direttamente dal salario. È in queste catapecchie che al momento sono ammassate centinaia di persone a rischio contagio.
Prima che accada l’irreparabile, occorre un vero atto di coraggio: cogliere il momento per dare dignità ai lavoratori sfruttati e presentare finalmente il conto ai caporali che, con il loro operato, rendono la vita difficile anche a tutti quegli imprenditori onesti e alle aziende virtuose che si muovono nel pieno rispetto delle regole e dei lavoratori.