L'era della cybernetica spazzera via le maestranze, ma le fabbriche potranno fare a meno dell esperienza umana?
È indubbio che per molti aspetti della vita la tecnologia abbia ormai assunto un ruolo talmente centrale da poter essere considerata indispensabile. Risulta persino complicato immaginare il compimento di talune azioni senza il suo utilizzo. Dalla sfera lavorativa fino ai rapporti interpersonali, il progredire delle funzioni digitali ha reso la quotidianità di ognuno di noi molto più dinamica, veloce, fluida e, almeno esteriormente, comoda.
Proprio questa soppressione di barriere e il conseguenziale abbattimento delle delimitazioni temporali, frutto dell’ingerenza progressiva della tecnologia nelle nostre vite, ha però reso totalmente discrezionale il confine tra orario lavorativo e fine servizio, sfumando sempre di più il limite tra la dimensione privata e occupazionale. La Rivoluzione tecnologica contemporanea assume, dunque, delle caratteristiche che riportano la memoria agli sconvolgimenti provocati dalle innovazioni introdotte durante la Rivoluzione industriale dell’Ottocento nel mercato europeo. Proprio come accadde in quei giorni l’opinione pubblica si trova fortemente contrapposta tra chi intravede in questi cambiamenti un miglioramento dello stile di vita e chi, invece, si mostra maggiormente critico, sviluppando un sentimento per certi versi simile ad una prassi neoluddista.
Esiste, infatti, un cospicuo settore della classe intellettuale che considera la concentrazione dei benefici dello sviluppo scientifico in “poche mani” come diretta conseguenza dei rapporti di forza, ed inevitabilmente cede davanti alle analisi deterministiche della storia. Sono proprio loro che, inquadrando la rivoluzione digitale in una dimensione irreversibilmente legata alla sfera capitalista, criticano nella sua totalità l’innovazione tecnologia aizzando le vittime della digitalizzazione ad abbracciare le eredità di Ned Ludd. In realtà la situazione è molto più complessa, e le analisi parziali non hanno altro effetto che confondere la mente della cittadinanza. In particolar modo, le preoccupazioni maggiori provengono dai lavoratori – operai e impiegati in primis –, i quali vedono il proprio ruolo messo in serio pericolo dalla progressiva automatizzazione del lavoro.
I folli esuberi attuati dall’Unicredit, prediligendo la digitalizzazione di processi e servizi, hanno portato alla riduzione dell’organico di circa 6000 posti di lavoro provocando il panico tra gli impiegati.
La paura degli effetti di una Rivoluzione tecnologica non controllata ha contagiato i salariati di tutta Europa tra cui non fanno eccezione quelli del Bel Paese. Secondo l’ultimo rapporto del Censis, infatti, 7 milioni di italiani hanno paura di perdere il posto a causa dell’innovazione tecnologica. Di questi, un operaio su due, vede il proprio lavoro a rischio mentre l’85% esprime preoccupazione per l’impatto della rivoluzione tecnologica. Secondo il 50% degli intervistati, inoltre, si imporranno ritmi più intensi, mentre per il 33% (43% per gli operai) si lavorerà peggio di oggi. A destare ulteriori preoccupazioni tra i lavoratori c’è l’aspetto retributivo: secondo il 70% di essi ci sarà una riduzione dei redditi e delle tutele sociali che porteranno ad una riduzione significativa dello stipendio, oltre che al dimezzamento di garanzie e protezioni. I salari, dunque, varieranno in base alle conoscenze tecnologiche provocando enormi disuguaglianze all’interno delle aziende:
“Fatto 100 lo stipendio medio italiano – scrive il Censis nel documento -, nei settori tecnologici il valore sale a 184,1, mentre negli altri comparti scende a 93,5. Sono i numeri di una disuguaglianza salariale in atto nelle aziende italiane che convive con le paure dei lavoratori e certifica l’esistenza di un gap tra chi oggi lavora con le nuove tecnologie e chi no.”
Come scritto in precedenza, però, le analisi parziali rischiano di confondere la maggior parte delle menti. Per trasformare il motivato timore dei lavoratori in entusiasmo ci sarebbe bisogno di ripensare alla distribuzione delle ricchezze di cui la rivoluzione tecnologica è depositaria. Le macchine e i robot del futuro, ormai non troppo prossimo, dovrebbero essere impiegati per facilitare e aumentare il benessere dei lavoratori attuando una rivoluzione proprio nel modo di concepire l’impatto e il benessere che la digitalizzazione apporta al mondo del lavoro. Le tecnologie non dovrebbero essere viste come dirette antagoniste dai lavoratori ma come agenti di semplificazione e di rottura dell’alienazione che lo stesso lavoro, spesso, scaturisce. Sostanzialmente il benessere prodotto dalla Rivoluzione digitale dovrebbe essere ripartito a tutti, non esclusivamente ai detentori dei mezzi di produzione. Modificando radicalmente la visione del comparto produttivo in genere si potrebbe lavorare di meno e lavorare tutti, godendo di maggior tempo libero da dedicare ai propri cari o ai propri hobby, mantenendo il salario e le tutele invariate.
Effettivamente le considerazioni sulle contraddizioni scaturite dalle nuove tecnologie sono di vecchia data. Durante la metà dell’Ottocento il filosofo ed economista Carl Marx in merito agli sconvolgimenti provocati dall’introduzione delle nuove macchine scriveva:
“…Tuttavia, la macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere «superfluo» l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia. Essa diventa l’arma più potente per reprimere le insurrezioni periodiche degli operai, gli scioperi, ecc. contro la autocrazia del capitale. Secondo il Gaskell la macchina a vapore è stata subito un antagonista della «forza umana », il quale ha messo il capitalista in grado di stroncare radicalmente le crescenti rivendicazioni degli operai, che minacciavano di spingere alla crisi il sistema delle fabbriche al suo inizio. Si potrebbe scrivere tutta una storia delle invenzioni che dopo il 1830 sono nate soltanto come armi del capitale contro le sommosse operaie…”
Quale sarà, dunque, il futuro dei lavoratori?