L’ossessione per la crescita economica illimitata ha un costo umano altissimo: salute mentale compromessa, povertà crescente e un sistema insostenibile.
Il tormento della crescita senza fine sta producendo solo macerie. Il nostro modello di sviluppo è alla frutta, lo sanno pure i bambini, ormai. L’idea che si potesse avere una crescita economica illimitata ha permeato le società a capitalismo avanzato sin dalle origini, ma la sua accelerata si è avuta negli ultimi 40-50 anni. Sfruttamento delle risorse naturali, consumo eccessivo di suolo, inquinamento atmosferico e ambientale sono tutti temi di ci cui si dibatte da decenni.
L’idea fissa, continua, martellante della produzione ad ogni costo, quasi del tutto priva di valore sociale, ha lasciato strascichi sulla salute mentale dei lavoratori, aumentando i casi di disagio. Gli studiosi delle dinamiche sociali hanno parlato di “un’economia del burnout”. A confermare tale definizione è stato l’ultimo rapporto dell’ONU, pubblicato in ottobre, a cura della “sezione speciale sulla povertà estrema e sui diritti umani”, in cui il nostro modello di sviluppo viene biasimato perché causa gravi problemi alla salute mentale dei lavoratori, soprattutto a quelli più vulnerabili. Nel rapporto viene spiegato che l’ossessione della crescita, la competizione estrema e la corsa alla performance a qualunque costo hanno partorito un forte sentimento di ansia connesso al proprio status, che nei casi più gravi sfocia in una vera e propria depressione. Questa condizione colpisce tutti quei lavoratori che non riescono a stare al passo delle aspettative aziendali.
Inoltre, è da segnalare un forte dispendio di risorse finanziarie, per cui la crescita, da questo punto di vista, è antieconomica. Ma tanto, ad allentare i cordoni della borsa sono gli Stati, mica gli imprenditori, che se ne disinteressano allegramente! Gli esperti hanno quantificato in circa 1000 miliardi di dollari annui i costi dell’“economia del burnout”. I lavoratori, infatti, per gli episodi di disagio psichico, sono costretti a fermarsi o, quantomeno a diminuire i ritmi. Mentre nelle società più povere, capita spesso che molti lavoratori non hanno cure per la mancanza di strutture idonee. Un vero e proprio “cul de sac” perché tra povertà e salute mentale esiste un rapporto biunivoco, nel senso che uno è, contemporaneamente, origine ed effetto dell’altro.
Il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio, al punto che a patirne sono ben 970 milioni di persone a livello mondiale, almeno secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La povertà rende inevitabile la vulnerabilità di queste patologie. Chi vive nell’indigenza, spesso, è costretto a fare lavori secondari, non di sua scelta, connotati da ritmi eccessivi e da un’incessante produttività. Inoltre manca qualsiasi tipo di controllo sull’esecuzione dei lavori e sulle misure di sicurezza. La sezione speciale dell’ONU non ha, tuttavia, perso le speranze di un mutamento di paradigma. Ossia, è necessario considerare ogni lavoratore una risorsa e non uno strumento per aumentare la produttività. Inoltre, nei casi di disagio psichico, è importante andare oltre i sintomi, in quanto le incessanti sollecitazioni sui lavoratori sono strutturali.
Non potevano mancare delle esortazioni alla lotta alle diseguaglianze, ai rischi individuali e collettivi provocati dal lavoro e all’introduzione di un “salario di base”. Ma l’aspetto più sconcertante è la concezione del lavoro, adorato alla stessa stregua di un feticcio e per il quale si è pronti a sacrificare vite umane. Se non lo si ha, si va in crisi, se lo si ha, ci si deprime. Non c’è via d’uscita per i poveri esseri umani: condannati nell’uno e nell’altro senso!