La scomparsa del ceto medio: 5 italiani su 10 temono la “trappola” del declino sociale

Il Censis nel suo annuale rapporto sullo stato di salute socio-economica ha mostrato una crescita della “fragilizzazione” e poca speranza.

Roma – Ceto medio, ormai, viaggia in… retromarcia! Gli anni ’60, grazie al cosiddetto “boom economico”, sono stati caratterizzati da un rapido sviluppo delle forse produttive e con esse da una rapida crescita economica e sociale. In questo contesto far parte del ceto medio significava essere inseriti in un processo di miglioramento formativo e professionale per cui si poteva salire nell’ascensore sociale. I suoi componenti avvertivano una forte appartenenza sociale e uno spiccato senso comune. Oggi, al contrario, il ceto medio è quasi scomparso dalla scena, vittima di una progressiva proletarizzazione.

Sul tema è stata diffusa una ricerca a cura del CENSIS, uno dei più prestigiosi istituti di ricerca sociale in Italia che pubblica ogni anno un rapporto sullo stato di salute socio-economica della nazione, per conto della CIDA, la Confederazione sindacale dei dirigenti a alta professionalità. Da tempo la struttura sociale italiana è afflitta da un lento sgretolamento del ceto medio, che si è inasprito negli ultimi anni. Si corre il rischio di veder scomparire quello che è stato considerato il motore della crescita economica del nostro Paese. Più della metà di italiani intervistati hanno manifestato un forte timore di un forte declino sociale.

L’aspetto preoccupante è la mancanza di speranza, di poter invertire la rotta, perché il pessimismo riguarda anche le generazioni future. Gli scienziati sociali hanno definito come “fragilizzazione”, quel processo originato a livello globale che ha ridotto la ricchezza e aumentato le disuguaglianze. Statisticamente, il 60,5% degli intervistati si è dichiarato appartenente al ceto medio, la stragrande maggioranza dei quali al ceto popolare e una piccola percentuale a quello benestante. Il ceto medio è stato definito anche “borghesia imprenditoriale”, per indicare cioè la classe che per reddito, prestigio e potere occupa una posizione intermedia tra la grande borghesia e il proletariato.

E’ una categoria molto variegata in cui vengono inseriti chi percepisce un reddito annuo tra il 5 e 34 mila euro (il 46,4%), tra i 35 e 50 mila (il 26,7%) e oltre i 50 mila euro (il 15,6%). Il Sud d’Italia manifesta una marcata estremizzazione tra ceti popolari e benestanti. Tra gli anziani è superiore, rispetto ai più giovani, la percentuale di chi si sente appartenente al ceto medio, rispettivamente il 65,4% e il 57,7%. Negli ultimi vent’anni il reddito delle famiglie italiane è calato del 7,7%, mentre in Europa, in media, è cresciuto del 10%. Con questi numeri, è comprensibile la paura del declassamento. Questo sentimento va dai ceti popolari ai più abbienti. Ma anche tra i dirigenti, imprenditori, commercianti, impiegati, insegnanti e operai in varie percentuali. Al di là dei pur importanti aspetti economici, quello che emerge con consapevolezza è l’impossibilità di migliorare la propria condizione socio-economica.

Come è avvertito il calo del benessere rispetto alle generazioni precedenti, che va di pari passo con la convinzione che la generazione futura vivrà peggio dell’attuale. La maggioranza degli italiani è convinta che nel Belpaese il merito e il talento non vengono premiati, da qui l’emigrazione dei “cervelli” all’estero. Così come ha trovato ampio consenso l’idea che chi ha talento e lavori di più, è giusto che percepisca retribuzioni migliori. Ora, questi risultati sulla società italiana, dovrebbero essere assunti da una classe dirigente che abbia a cuore l’interesse pubblico e dei suoi cittadini. Se la percezione dei cittadini della classe media è quella succitata, un motivo esiste: il fallimento delle politiche sociali e fiscali degli ultimi 15 anni, a cui, non pare che la classe politica sia in grado di dare le risposte risolutive!

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