La Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario proposto da Calderoli. E’ una scelta tecnicamente corretta, ma la Lega ci costruirà sopra la campagna elettorale.
Per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, un referendum abrogativo, specialmente se in materia di legge elettorale, deve essere in grado di produrre una normativa “autoapplicativa”. Ciò significa che, anche ammesso che al referendum vinca il sì e che il testo legislativo oggetto della consultazione venga quindi emendato, quello che resta della legge deve potersi applicare subito, senza la necessità di ulteriori passaggi parlamentari. La ragione è logica e razionale e non si tratta affatto un tecnicismo: dal momento che la Corte non può ovviamente obbligare il Parlamento a legiferare, essa non intende originare vuoti normativi.
Se i lettori faticano a comprendere, provino con una similitudine e immaginino una proposizione da cui un ipotetico referendum volesse eliminare alcune parti. Se la porzione rimossa fosse, in ipotesi, un aggettivo, molto probabilmente la frase continuerebbe ad avere un senso compiuto (se dalla proposizione “il gatto rosso mangia un topo” si eliminasse “rosso”, la frase “il gatto mangia un topo” continuerebbe ad avere un senso). Differentemente, se dalla medesima proposizione si espungesse il verbo, ciò che resterebbe non risulterebbe più utilizzabile (“il gatto rosso un topo” non ha senso).
Il quesito referendario proposto dalla Lega e, nello specifico, da Calderoli, che chiedeva l’abolizione della quota proporzionale dell’attuale legge elettorale, non dava origine a una disposizione di legge autoapplicativa. Questo perché una legge interamente uninominale (come sarebbe diventata la nostra legge elettorale a seguito dell’eventuale abrogazione della quota proporzionale), per funzionare, ha assoluta necessità che vengano ridisegnati i collegi. Per provare a ottenere un simile risultato, il quesito proposto da Calderoli si spingeva a intervenire anche su una legge delega del 2019, in materia di riduzione del numero dei parlamentari (quindi su una legge immaginata per tutt’altra finalità). Un’operazione tecnicamente grossolana e giudicata dalla Consulta troppo manipolativa. Di conseguenza (e correttamente) la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario.
Calderoli e Salvini, a tal proposito, hanno commentato che i giudici avrebbero “cancellato il popolo e i suoi diritti”, facendo tornare il Paese “alla Prima Repubblica”. Quali diritti siano stati cancellati dalla pronuncia della Corte e cosa c’entri la Prima Repubblica con tutto questo rimane un mistero. Le dichiarazioni rilasciate a caso, però, ormai, non ci stupiscono più: nella democrazia degli slogan, dove importa solo la comunicazione, il contenuto è sostanzialmente irrilevante.
A questo riguardo prende forma sempre più nitidamente una diversa lettura. Siamo proprio sicuri che per la Lega si sia trattato di una disfatta? E’ così inverosimile immaginare che Salvini abbia proposto questo referendum consapevole che, probabilmente, esso non avrebbe affatto superato il vaglio di ammissibilità della Corte, al solo fine di poter innalzare un minuto dopo le bandiere del populismo anti-casta (contro i “giudici servi del sistema” e via dicendo) e costruirci sopra la narrazione dell’ultimo miglio di campagna elettorale in vista delle regionali emiliane di fine gennaio? A noi non sembra affatto fantapolitica, tutt’altro.