Prima c’era il “Dalemoni”, a seguire il “Renzusconi” con tutte le sue politiche liberali tinte di arancione. Un drammatico esempio il Jobs Act. E a seguire chi arriverà a mischiare le carte?
Roma- La Consulta ha detto no ai licenziamenti ingiustificati. Ricordate la tanto strombazzata riforma del mercato del lavoro chiamata Jobs Act, attuata nel 2016 dal governo Renzi, la diversamente Lince di Rignano, come è stato definito da Andrea Scanzi, giornalista e scrittore de Il Fatto Quotidiano? Ebbene la Corte Costituzionale la considera illegittima e ha ritenuto: “Indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti”. Lo scopo di questa riforma era volta a flessibilizzare il mercato del lavoro, con relativa scomparsa delle tutele fino ad allora vigenti.
In pratica il lavoratore diventava una variabile dipendente della domanda di merci e/o servizi. Al macero i diritti acquisiti dopo tante dure lotte sindacali. Volendo usare una terminologia d’antan si potrebbe dire che fu accolta con favore dalla classe padronale di Confindustria e dal suo codazzo di pennivendoli al seguito. La sentenza 183/2022 della Consulta ha sollecitato il legislatore a riformare con urgenza le norme sui licenziamenti per riconoscere tutele più idonee ai lavoratori.
L’intervento del legislatore è necessario perché si tratta di: “una materia di importanza essenziale per la sua connessione coi diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”.
La Corte è intervenuta sul concetto di indennità, oscillante tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, che spesso non risulta corrispondere alla unicità di ogni singolo episodio. In questo modo appare preponderante il numero dei dipendenti, in un contesto, al contrario, condizionato dallo sviluppo della tecnologia e dai mutamenti dei processi produttivi. Questo aspetto non riesce a stabilire l’effettiva forza economica del datore di lavoro e nemmeno a determinare l’equa indennità secondo le caratteristiche di ogni singolo evento.
La stessa Corte si è focalizzata su alcune opzioni per rimediare all’incostituzionalità di alcune parti del Jobs Act, tra cui: ridefinizione di un criterio distintivo, eliminazione del regime speciale, ridefinizione delle soglie. Ognuna di queste scelte dipende da diverse alternative di politica legislativa, che sono di competenza del legislatore.
Oltre a dichiarare l’incostituzionalità di alcune parti del Jobs Act, la Consulta ha anche dichiarato l’insostenibilità dell’eventuale inattività legislativa. Un invito, quindi, a darsi una mossa. Altrimenti interverrebbe la Corte stessa a cambiare la regolamentazione dei licenziamenti. L’allora Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che proponeva una riforma del mercato del lavoro da lui definita epocale e che avrebbe rappresentato la panacea per l’ingessato mercato del lavoro italiano, facendosene bocciare alcune parti per incostituzionalità, era un incapace.
Nella migliore delle ipotesi perché circondato di tecnici competenti nella stesura di un testo legislativo e ignoranti della Costituzione. Nella peggiore perché utilizzato come cavallo di Troia da quei poteri che mirano a scardinare il welfare state e lo statuto dei lavoratori.
Le due conquiste più importanti raggiunte dai lavoratori italiani dal secondo dopoguerra in poi. Ora il tanto borioso personaggio politico, accecato dal potere e dalla sua prosopopea, non è consapevole dei tanti danni che ha prodotto durante la sua gloriosa attività politica.
Oltre al mitico Jobs Act, possiamo ricordare un’altra impresa che passerà agli annali della storia politica repubblicana. Ovvero, il referendum costituzionale del 4/12/2016, il cui oggetto era la cosiddetta riforma costituzionale Renzi-Boschi per la modifica della seconda parte della Costituzionale.
Il nostro fuoriclasse, dichiarò che un’eventuale sconfitta avrebbe costituito il suo abbandono della scena politica. Beh, la sconfitta si è verificata, ma il nostro baldo giovanotto è ancora lì. É una sorta di Sancho Panza della politica, col suo partitino da prefisso telefonico: Italia Viva, che, in realtà, appare più che decrepito. La gran parte degli italiani sono ancor ancora in fiduciosa attesa che tenga fede alla sua antica promessa. Ma essendo un pestifero monello e un pinocchietto, le speranze risultano vane!