I neuroscienziati sottolineano il filo rosso che lega la solitudine e le patologie del sistema nervoso centrale. La ricerca scientifica può fare molto in tema di prevenzione, ma anche chi si occupa di politica può fare la propria parte per cercare di contrastare il fenomeno.
Roma – All’inizio del mese di luglio, nella suggestiva atmosfera di Budapest, si è svolto il nono congresso di neurologia. Uno dei temi trattati è stato l’isolamento sociale. Una sorta di “legge del contrappasso”, visto che la società tecnologica e iperconnessa dovrebbe garantire contatti a tutte le ore del giorno della notte. E invece l’isolamento sociale c’è e si diffonde sempre di più.
Com’è noto, l’invecchiamento, dovuto all’imperterrito trascorrere del tempo, è causa di una fisiologica atrofizzazione del cervello. La solitudine pare esacerbare questo aspetto, tanto da trasformarlo in patologia che può essere inserita tra le demenze.
Il “Max Planck Institute di antropologia evolutiva” con sede a Lipsia, in Germania, è un istituto di ricerca che mette al centro dei propri studi aspetti molto diversi dell’evoluzione umana. Analizzano i geni, le culture e le capacità cognitive delle persone che vivono oggi e le confrontano con quelle delle scimmie e dei popoli estinti.
Uno degli studi più recenti ha riguardato persone sottoposte a risonanza magnetica dell’encefalo. Erano noti i dati sanitari, le abitudini di vita e la socialità all’inizio dello studio e dopo sei anni. Più cresceva l’isolamento sociale, più era evidente un peggioramento dello spessore di alcune aree corticali, tra cui il volume dell’ippocampo, una caratteristica della demenza senile e dell’Alzheimer.
Con la solitudine peggiora anche la memoria, la velocità di elaborazione e le capacità esecutive, i primi segnali del decadimento cognitivo. La relazione tra solitudine e demenza è nota da tempo, ma si sa ancora poco sui meccanismi neurobiologici ad essa connessi. Non c’è nessuna speranza, dunque?
I ricercatori del Max Plank Instute ritengono, invece, che qualche aspetto positivo esiste. Infatti, secondo gli studiosi, non è solo la solitudine valutata nella fase iniziale, ma anche la sua evoluzione negli anni che assume importanza. Alcune misure di prevenzione primaria, come fornire occasioni di socialità, potrebbero essere un buon antidoto.
La prevenzione primaria riguarda l’adozione di interventi e comportamenti in grado di evitare o ridurre all’origine l’insorgenza e lo sviluppo di una patologia o di un evento sfavorevole. Al congresso di Budapest è emerso il concetto di “salute del cervello” e la prevenzione secondaria, che consiste nel tutelare la salute e dunque anche il benessere degli individui attraverso controlli sanitari costanti.
È una questione di salute pubblica che riguarda un numero considerevole di persone. Non si tratta solo di un fenomeno sanitario, ma comprende aspetti sociali e psicologici, che vanno rafforzati. Una politica che guardasse al di là del proprio naso, si renderebbe conto che la solitudine cresce nella povertà delle grandi città. Inoltre, una sana politica di riqualificazione delle periferie porterebbe dei vantaggi economici, visto che l’isolamento sociale è, poi, a carico del sistema nazionale sanitario.
L’isolamento sociale non influisce solo sul sistema nervoso centrale, ma anche su patologie quali l’ictus o malattie coronariche, due delle maggiori cause di morte nei paesi ricchi. La speranza è che la ricerca scientifica possa fornire degli antidoti sempre più efficaci, ma senza un intervento più ampio non si va da nessuna parte. E l’isolamento sociale potrà diffondersi a macchia d’olio.