Entro la fine del 2025 l’Italia dovrà riprendersi i propri rifiuti radioattivi stoccati in Francia e Regno Unito. La spesa per gli italiani, vedi oneri di sistema sulla bolletta, dal 2001 ad oggi è stata 1,2 miliardi di euro. Una botta senza precedenti.
Roma – Mentre l’intera maggioranza è pervasa da un sacro furore futurista, tra colonizzazioni marziane e trenini di luccicanti satelliti a stelle e strisce, strano ma vero l’ennesima tegola per il governo Meloni proviene direttamente dal pianeta terra. Gli accordi stretti con Regno Unito e Francia ai quali abbiamo appaltato la gestione e lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi, frutto del nostro passato a trazione atomica, vedranno la loro decadenza proprio nell’anno in corso. Così dopo aver investito più di 1,2 miliardi di euro di denaro pubblico, trattenute visibili sulla bolleta fino al 2022 sotto la voce oneri di sistema, componente tariffaria A2, ora ci si dovrà affrettare a trovare ulteriori risorse per organizzare il rientro del pericoloso materiale e per l’edificazione di infrastrutture adatte a contenerlo e preseservarlo. Le partite da giocare saranno diverse e tutte cruciali: dagli accordi con gli amministratori locali alla ricerca delle ingenti risorse necessarie, un altro grattacapo per il Governo in questo non così roseo primo 2025.
Gli anni del nucleare in Italia
La storia del nucleare in italia ha inizio a Latina quando, nel 1958, veniva intrapresa la costruzione della prima centrale, appartenente alla generazione di impianti nucleari realizzati con tecnlogia britannica GCR-Magnox. All’apice dello sfruttamento dell’energia atomica l’Italia vedeva sul suo territorio la presenza di 4 centrali nucleari: a Trino (provincia di Vercelli), a Caorso (provincia di Piacenza), a Garigliano (provincia di Caserta) e a Latina appunto. Nonostante la produzione di questa tipologia di energia non abbia mai causato problemi di salute pubblica nel Bel Paese, a parte il già ben noto problema delle scorie, lo shock causato dall’incidente di Chernobyl, nella non così lontana Ucraina. diventava cruciale per la proclamazione di un referendum nazionale, con il quale il popolo italiano avrebbe deciso se chiudere definitivamente con la produzione energetica atomica. Nel 1987 i cittadini venivano chiamati al voto riguardo tre questioni:
– Impedire allo stato di aprire nuove centrali in comuni che non si mettevano a disposizione per farlo.
– Togliere contributi agli Enti Locali che acconsentivano a costruire centrali nei loro territori.
– Vietare all’Enel di partecipare alla costruzioni di centrali nucleari all’estero. (Atto in seguito abrogato nel 2004)
Il referendum si chiudeva con una schiacciante vittoria del no al nucleare (77,4%). Successivamente, a causa della sempre più pressante presa di posizione dell’opinione pubblica, si decise di chiudere anche le centrali nucleari già realizzate per poi dare inizio a quello che viene chiamato decommissioning.
Il Decommissioning
In lingua italiana si traduce in “dismissione” e consiste nella totale bonifica dell’area nella quale in precedenza sorgeva un impianto nucleare. La questione più spinosa durante il decommissioning e sicuramente rappresentata dalla raffinazione e lo smaltimento delle scorie residuali della produzione energetica. Usiamo la parola raffinazione poiché non tutto il materiale nucleare esausto è un rifiuto. Infatti una parte di esso può essere chimicamente trattato e riutilizzato come carburante. Non avendo strutture idonee alla riprocessione delle scorie radioattive, l’Italia decise di affidare tale lavorazione al Regno Unito, già dagli anni ‘60, e dal 2006 alla Francia. Il trattamento e la riconversione in nuovo carburante dei rifiuti nucleari produce un effettivo 5% di scarto finale, scarto che Regno Unito e Francia hanno fino ad ora conservato e stoccato presso i rispettivi depositi nazionali. Ovviamente il tutto non fa parte di un’opera benevola a favore dell’Italia poichè il trattato di cui parlavamo ha portato a spese calcolate dal 2001 ad oggi in 1,2 miliardi di euro. Cifra in realtà che include tutta la gestione del combustibile irraggiato, mentre la percentuale legata strettamente all’estero non possiamo saperla perché rappresenta un dato riservato. Ma a spese di chi lo Stato italiano ha appaltato la gestione delle proprie schifezze radianti? Ovviamente a spese del cittadino che fino al 2022 in quel porto delle nebbie rappresentaton dalla voce “oneri di sistema” sulla bolletta, poteva notare la voce “componente tariffaria A2”, destinata proprio al ben noto scopo.
Quali scenari ci attendono?
Sostanzialmente il Governo ha davanti a sé due vie per scegliere come gestire il problema: stoccare i rifiuti rimpatriati in un deposito temporaneo, oppure costruirne uno nazionale. Stoccare le scorie rientranti in un deposito temporaneo può essere la risposta più immediata poichè l’Italia già produce rifiuti radiottavi che derivano dalle lavorazioni di centri di studio e/o ospedali che si occupano di radio-medicina. Per questo fine sono già presenti, sul territorio nazionale, ben 20 depositi temporanei. La questione tuttavia sorge riguardo la specifica fattispecie a cui le nostre scorie radioative appartengono, infatti quest’ultime rientrano nella categoria delle scorie ad “alta attività” per cui obbligate prima o poi ad uno stoccaggio di profondità. La strategia del deposito nazionale è certamente fuori budget tenendo conto del volume medio delle nostre leggi di bilancio. La coperta è sempre corta e decidere in che direzione tirarla è sempre una camminata sui gusci d’uovo. Tutto ciò va inevitabilmente a sommarsi con l’ostilità delle amministrazioni locali selezionate per la costruzione dei suddetti depositi. Vedi l’avvelenato Monferrato, già davastato dall’amianto, che è già sul piede di guerra.
Probabilmente il governo Meloni opterà per la via meno dispendiosa, ovvero per la procrastinazione. Verosimilmente verranno redatti nuovi patti con nazioni estere, magari cercando partnership con Stati meno regolamentati in materia così da poter gestire il tutto con maggior tranquillità. Qualunque previsione ci pone davanti a soluzioni certamente non immediate, per un problema che pare proprio diventerà un’eterna patata bollente passata da un Esecutivo all’altro. Mala tempora currunt.