Il distretto tessile di Prato, da fiore all’occhiello alla piaga del sommerso

Sin dalle origini circa 200 anni fa, la città toscana ha sempre rappresentato la punta di diamante della moda nazionale della produzione.

Roma – Il distretto del tessile di Prato, luogo di diritti calpestali e danni ambientali. Lo scorso 6 ottobre le manifestazioni di alcuni operai del settore tessile di Prato hanno riacceso i riflettori sulle gravi criticità, spesso sommerse ma legate tra loro del fast fashion. Ovvero la moda ultraveloce che negli ultimi decenni ha rivoluzionato il modo in cui ci vestiamo. Capi a prezzi stracciati, collezioni che si rinnovano a una velocità impressionante e un modello di business basato sull’acquisto compulsivo: un ciclo incessante di produzione e consumo che spinge le aziende di moda a produrre abiti a ritmi vertiginosi e i consumatori a credere di dover acquistare sempre di più per rimanere al passo con le tendenze. E pensare che il distretto pratese è considerato il non plus ultra della produzione italiana! Sin dalle origini, Prato, circa 200 anni fa, ha sempre rappresentato la punta di diamante della moda nazionale.

Nel secondo dopoguerra del secolo scorso ha iniziato il percorso che ha permesso lo strepitoso sviluppo degli anni ’70 con la standardizzazione della moda e la crescita economica. Da quel momento si è assistito al proliferare di aziende, anche piccolissime, per cavalcare l’onda della produzione, in quanto le richieste erano incessanti. Nel 2020 sono state rilevate quasi 7000 aziende nel territorio pratese occupate nella moda, di cui 2000 solo nel tessile. Sono numeri corposi che testimoniano come il distretto di Prato sia considerato il più grande d’Europa, coprendo anche 12 comuni limitrofi. Negli ultimi tempi, a dire il vero, la crisi ha fatto sentire le sue zanne. E’ stato riscontrato, infatti, da parte di molte aziende, il ricorso alla cassa integrazione ordinaria e, finanche, agli ammortizzatori straordinari.

Il distretto tessile di Prato

All’origine di questa situazione, probabilmente l’inflazione, la crescita del costo delle materie prime e la guerra in Ucraina. Il prezzo più caro è pagato dai piccoli artigiani che, in quanto tali, non usufruiscono degli ammortizzatori sociali. Inoltre, l’incertezza geopolitica ed economica mondiale ha fatto calare la produzione e i consumi. Ed arranca, paurosamente, anche il fast fashion. Oltre alla diminuzione della produzione, emerge l’estrema vulnerabilità dei lavoratori del settore, con quelli che, seppur, occupati subiscono condizioni di sfruttamento. Le proteste hanno coinvolto 5 aziende cinesi, protagoniste della filiera della moda. Si tratta di piccole fabbriche di 5-12 dipendenti, con turni di lavoro di 12 ore per 7 giorni la settimana. La maggior parte di questi poveri cristi lavora in nero o con falsi contratti part-time, i più fortunati (!). Il polo della moda di Prato è caratterizzato da aziende che puntano al massimo profitto ad ogni costo. Sembra un porto franco, dove il più forte decide per tutti, fuori da qualsiasi contesto legale, un mondo a sé.

Una delle cinque aziende cinesi non ha accettato l’accordo col sindacato che prevedeva contratti in regola e turni di 5 giorni e di 8 ore. La risposta? Persone armate di spranghe di ferro a colpire chiunque si trovava a protestare, quasi tutti di nazionalità pakistana. Come nelle peggiori dittature. L’ambiente non se la passa meglio. L’industria della moda è tra i settori più inquinanti ed energivoro. E’ la terza fonte di degrado delle acque oltre a consumarne eccessivamente. E’ molto triste constatare di vivere senza vie di fuga, di non poter scegliere, di essere obbligati a compiere un certo comportamento. Forse nella storia non c’è mai stato un sistema così pervasivo e totalitario, che prima seduce con la retorica democratica e poi ci lega ad esso con catene invisibili ma esistenti. Sarebbe il caso di ricordarselo quando, dati i magri stipendi, si va a comprare qualche capo della moda veloce. E’ come il cane che si morde la coda! 

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