Il magistrato calabrese ucciso nel 1991 mentre preparava il rigetto dei ricorsi del maxiprocesso. Tra piste siciliane, armi ritrovate e 20 indagati.
Piale di Villa San Giovanni – È la notte tra il 9 e il 10 agosto 1991 quando una telefonata sconvolge il Quirinale. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga annulla immediatamente tutti gli impegni e parte per la Calabria: a Piale di Villa San Giovanni, un magistrato è stato assassinato. Non si tratta di un incidente stradale, come inizialmente ipotizzato, ma di un agguato in piena regola. La BMW 318 del giudice Antonino Scopelliti è stata crivellata di colpi d’arma da fuoco. Un omicidio che, a 34 anni di distanza, continua a interrogare investigatori e opinione pubblica.
Un magistrato lontano dalla ‘ndrangheta ma nel mirino di Cosa Nostra
Antonino Scopelliti nasce il 20 gennaio 1935 a Campo Calabro ma la sua brillante carriera in magistratura, iniziata nel 1959 a soli 24 anni, non si svolge mai in Calabria. Pubblico ministero prima a Roma poi a Milano, procuratore generale della Corte d’Appello e infine sostituto procuratore della Corte di Cassazione, Scopelliti si era fatto un nome rappresentando l’accusa nei più importanti processi del dopoguerra italiano: dalla strage di piazza Fontana a quella del Rapido 194, dal caso Moro al sequestro della Achille Lauro.

L’elemento che rende il suo omicidio particolarmente inquietante è che mai prima di allora la ‘ndrangheta aveva ucciso un magistrato nella propria terra. L’unico precedente era stato l’assassinio di Bruno Caccia nel 1983, ma a Torino, dove il magistrato stava indagando sui traffici della criminalità organizzata in Piemonte. Perché uccidere proprio Scopelliti, che non si occupava direttamente di ‘ndrangheta? E perché farlo in Calabria?
La risposta arriva dal lavoro che il magistrato stava svolgendo nell’estate del 1991: preparava il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese di alcuni tra i mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Quel diniego avrebbe potuto confermare definitivamente le condanne, chiudendo ogni via di fuga legale per i boss siciliani.
L’agguato: una morte annunciata
Il pomeriggio del 9 agosto 1991, Scopelliti aveva trascorso una giornata al mare, come era solito fare durante le sue vacanze calabresi. Stava tornando verso Campo Calabro a bordo della sua BMW quando, lungo la strada di Piale, frazione di Villa San Giovanni, viene intercettato dai sicari. Almeno due killer, appostati in sella a una moto, lo attendono armati di fucili calibro 12 caricati a pallettoni.

Quando l’auto di Scopelliti svolta per il rettilineo che immette nell’abitato di Campo Calabro, i sicari fanno fuoco. Due colpi esplosi in rapida successione centrano la testa del magistrato, uccidendolo all’istante. Un’esecuzione perfetta, pianificata nei minimi dettagli.
Il giorno successivo, nella Chiesa Madre di Campo Calabro, si svolgono i funerali ai quali partecipa lo stesso presidente Cossiga. “Sono venuto qui per onorare il magistrato Antonino Scopelliti, caduto per la difesa dei principi della civile convivenza e per la difesa del diritto”, dichiara il Capo dello Stato, sottolineando come “l’uccisione di un magistrato non è solo un crimine contro la vita umana, ma anche contro lo Stato”.
Tra i presenti ai funerali c’è anche Giovanni Falcone, che in quell’occasione confida a uno dei partecipanti una frase che si rivelerà tragicamente profetica: “Ora il prossimo sarò io”. Meno di un anno dopo, il 23 maggio 1992, l’esplosione di Capaci avrebbe confermato i suoi timori.
Le indagini: tra piste siciliane e assoluzioni controverse
Le prime indagini si concentrano immediatamente sulla connessione con il maxiprocesso. La tesi dell’accusa, suffragata dalle dichiarazioni di diversi pentiti, ipotizza un accordo tra mafia calabrese e siciliana: Cosa Nostra avrebbe chiesto alla ‘ndrangheta di eliminare il magistrato in cambio di un intervento per far cessare la sanguinosa guerra di ‘ndrangheta che stava devastando la Calabria.

Tra il 1996 e il 1998, vengono condannati in primo grado alcuni dei più importanti vertici di Cosa Nostra, tra cui Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Tuttavia, in una decisione che solleva molte perplessità, tra il 1998 e il 2000 tutti gli imputati vengono assolti in appello. Il caso sembra chiuso.
Nel 2012, un nuovo collaboratore di giustizia riaccende i riflettori sull’omicidio Scopelliti, confermando sostanzialmente la tesi degli anni Novanta: il magistrato sarebbe stato ucciso da due calabresi su commissione di Cosa Nostra. Tuttavia, non fornisce i nomi di killer e mandanti, lasciando ancora una volta il caso in un limbo investigativo.
La svolta del 2018: l’arma del delitto
La vera svolta arriva nel 2018 quando, a Belpasso nel catanese, viene ritrovata l’arma del delitto. Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola portano al recupero del fucile utilizzato per l’omicidio, dando nuovo impulso alle indagini. La Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria riapre il caso, disponendo nuovi accertamenti che proseguono ancora oggi.
Secondo la ricostruzione investigativa emersa dalle ultime indagini, il mandato omicidiario sarebbe arrivato direttamente da Totò Riina, che avrebbe incaricato Matteo Messina Denaro della fase operativa. Il boss di Castelvetrano avrebbe ricevuto informazioni preziose sulle abitudini del magistrato da Salvo Lima, l’europarlamentare democristiano che sarebbe stato a sua volta assassinato a Palermo il 12 marzo 1992.
Messina Denaro, secondo i pm, avrebbe curato i contatti con un informatore locale rimasto ignoto che forniva aggiornamenti sui movimenti di Scopelliti. L’omicidio sarebbe stato deciso durante una riunione svoltasi a Trapani nella primavera del 1991, dimostrando la pianificazione a lungo termine dell’operazione.
Venti indagati per un delitto che ha cambiato la storia
Le indagini più recenti hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 20 persone. Oltre ai primi 17 coinvolti nel 2019, sono stati aggiunti altri esponenti di primo piano della ‘ndrangheta reggina: Pasquale Condello, Giuseppe De Stefano, Giuseppe Morabito, Luigi Mancuso, Giuseppe Zito e Franco Coco Trovato, boss delle cosche “milanesi”.

Nel decreto di perquisizione eseguito nelle scorse settimane dalla Squadra mobile a Messina compare anche il nome del boss catanese Nitto Santapaola, nei cui confronti però “non si può procedere perché già assolto per l’omicidio Scopelliti”. Tra gli indagati figurano anche boss nel frattempo deceduti, come Matteo Messina Denaro, Giovanni Tegano e Francesco Romeo.
Un caso che segna uno spartiacque
L’omicidio di Antonino Scopelliti rappresenta uno spartiacque nella storia della lotta alla mafia. Per la prima volta, la ‘ndrangheta uccideva nella propria terra natale, dimostrando la propria capacità di agire come braccio armato di Cosa Nostra in una strategia stragista più ampia. Il delitto anticipa di pochi mesi le stragi di Capaci e via d’Amelio, inserendosi in quel piano di terrore che doveva piegare lo Stato italiano.
A 34 anni di distanza, mentre le indagini proseguono con nuovi elementi e testimonianze, l’omicidio Scopelliti continua a rappresentare una ferita aperta nella coscienza civile del Paese. Un magistrato ucciso non per quello su cui stava indagando ma per quello che stava per decidere: il definitivo rigetto dei ricorsi che avrebbero mandato definitivamente in carcere i boss del maxiprocesso.
La sua morte, insieme a quella di Falcone e Borsellino, ha segnato il punto più buio della Repubblica italiana, ma anche l’inizio di una reazione che avrebbe portato agli arresti dei grandi latitanti e a una nuova stagione di lotta alla criminalità organizzata.