L’odissea giudiziaria di Antonino Pepi mette in luce i limiti del sistema penale italiano tra errori di valutazione e diritti negati.
Vittoria (Ragusa) – La vicenda giudiziaria che ha coinvolto la famiglia Pepi per l’omicidio di Giuseppe Dezio, avvenuto il 2 febbraio 2016 a Vittoria, rappresenta uno dei casi più controversi della cronaca giudiziaria siciliana degli ultimi anni. Una storia che evidenzia le falle del sistema penale italiano, dove confessioni chiare vengono ignorate e prove ambigue diventano la base per condanne definitive.
La dinamica dei fatti e la confessione ignorata
Tutto inizia in un’impresa agricola di proprietà di Gaetano Pepi, dove durante una colluttazione violenta perde la vita Giuseppe Dezio, colpito da diversi fendenti di coltello. Sin dai primi momenti, Gaetano Pepi, padre di famiglia, rivendica la piena responsabilità dell’omicidio, sostenendo di aver agito per difendere il figlio Alessandro, a sua volta aggredito da Dezio armato di coltello.
Nonostante la confessione circostanziata di Gaetano Pepi, la Procura di Ragusa decide di indagare tutti i componenti della famiglia: i fratelli Marco, Alessandro e Antonino Pepi, oltre al padre Gaetano. Una scelta che si rivelerà foriera di conseguenze drammatiche per l’amministrazione della giustizia.
Il paradosso giudiziario del primo grado
Nel primo grado di giudizio, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Siracusa, si consuma il primo paradosso di questa vicenda: vengono assolti Marco e Gaetano Pepi (quest’ultimo considerato addirittura un “autocalunniatore”), mentre vengono condannati i fratelli Alessandro e Antonino.

Una decisione che ribalta completamente la confessione resa da Gaetano Pepi, senza fornire spiegazioni convincenti sul perché dovesse mentire per proteggere i figli.
La svolta in appello: quando la verità emerge troppo tardi
La vera svolta arriva in Appello, quando la Corte d’Assise d’Appello di Catania decide di procedere a una significativa rinnovazione istruttoria. Vengono disposti nuovi accertamenti tecnici, riesaminati i testimoni e, soprattutto, viene dato finalmente credito alla versione di Gaetano Pepi. La Corte ricostruisce la dinamica in modo completamente diverso: Gaetano Pepi ha effettivamente agito da solo, colpendo Dezio con il coltello per difendere il figlio Alessandro.
Alessandro Pepi viene assolto ma per Antonino la situazione rimane drammaticamente invariata. La Corte, pur riconoscendo che solo Gaetano aveva commesso l’omicidio, condanna comunque Antonino a 14 anni di reclusione per concorso, basandosi principalmente sulla presenza di tracce ematiche sui suoi vestiti.
Le criticità della motivazione
Come evidenziato dallo stesso Avvocato Generale presso la Corte di Cassazione, Gabriele Mazzotta, la motivazione della sentenza d’appello presenta numerose incongruenze. Le tracce di sangue sui vestiti di Antonino Pepi, considerate “la firma” della sua partecipazione al delitto, potrebbero essere facilmente spiegate come contaminazione successiva o semplice prossimità al luogo dell’aggressione, senza necessariamente implicare una partecipazione attiva.

La stessa Corte ammette di non riuscire a ricostruire con precisione la posizione e il comportamento di Antonino Pepi durante la colluttazione, affidandosi esclusivamente agli elementi ematici come prova della sua colpevolezza. Un ragionamento che, secondo l’Avvocato Generale, non soddisfa i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per la prova indiziaria.
Il ricorso per cassazione e il parere dell’Avvocato Generale
Quando il caso arriva in Cassazione, l’Avvocato Generale Mazzotta presenta una memoria circostanziata in cui accoglie integralmente le tesi della difesa, chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza. La sua analisi mette in luce tutti i vizi della motivazione, dall’inadeguatezza della prova indiziaria alla mancata ricostruzione del contributo causale di Antonino Pepi.
Tuttavia, la Corte di Cassazione disattende il parere dell’Avvocato Generale e conferma la condanna, rendendo definitiva una sentenza che lo stesso rappresentante dell’accusa aveva ritenuto infondata.
L’istanza di revisione e il diniego inspiegabile
L’ultima speranza per Antonino Pepi è l’istanza di revisione, presentata dall’avvocato Giuseppe Lipera dello storico Studio Legale Lipera di Catania, attivo dal 1947 e specializzato in patrocinio presso la Corte Suprema di Cassazione. L’istanza viene corredata con nuove dichiarazioni di tutti i familiari definitivamente prosciolti e di testimoni che confermano l’estraneità di Antonino ai fatti.

Anche questa strada viene però sbarrata dalla Corte d’Appello di Messina, che dichiara inammissibile l’istanza con una motivazione che l’avvocato Lipera definisce “apodittica” e priva di fondamento nel ricorso per Cassazione presentato l’8 luglio 2025.
La Corte di Messina sostiene che le nuove dichiarazioni non sarebbero decisive, basandosi sul presunto tentativo della famiglia Pepi di “inquinare” le indagini. Un’argomentazione che, come evidenzia l’avvocato Lipera, ignora completamente il fatto che gli stessi soggetti fossero imputati e che le loro dichiarazioni hanno trovato riscontro nella sentenza d’appello, che ha accertato la responsabilità di Gaetano Pepi.
La battaglia dell’avvocato Lipera
L’avvocato Giuseppe Lipera, nel ricorso per Cassazione contro il diniego della revisione, denuncia con forza l’errore della Corte messinese, sostenendo che essa ha “manifestamente ecceduto i limiti del giudizio di ammissibilità, operando una valutazione di merito che spetta eventualmente al giudice della fase rescissoria”.
Lipera contesta in particolare l’approccio restrittivo della Corte nell’interpretazione del concetto di “decisività” delle prove, sottolineando come le nuove dichiarazioni offrano “un contesto interpretativo differente, tale da escludere il concorso in omicidio del Pepi Antonino”. Il legale evidenzia come la presenza del DNA della vittima sui vestiti del suo assistito sia “un dato di fatto che si presta ad innumerevoli interpretazioni” e non può essere considerato una prova incontrovertibile di colpevolezza.
Nel ricorso, l’avvocato Lipera ricostruisce minuziosamente tutta la vicenda processuale, evidenziando come le diverse ricostruzioni dei fatti tra primo e secondo grado dimostrino la fragilità dell’impianto accusatorio. “Sono cambiati gli autori del reato; è stata identificata una diversa ferita mortale; è stata esclusa la necessità di più armi bianche sulla scena del delitto”, argomenta il legale, sottolineando come queste continue variazioni rendano ancora più rilevanti le nuove dichiarazioni.
Un caso emblematico dei limiti del sistema
La vicenda di Antonino Pepi rappresenta un caso emblematico dei limiti del sistema penale italiano. Da un lato, abbiamo una confessione chiara e circostanziata che viene ignorata per anni; dall’altro, una condanna basata su prove ambigue e un ragionamento indiziario che non soddisfa i requisiti di legge.
Il paradosso più stridente è che Gaetano Pepi, riconosciuto colpevole ma protetto dal giudicato, rimane impunito, mentre il figlio Antonino sconta una pena per un reato che tutti – compresi i giudici d’appello – riconoscono essere stato commesso dal padre.
Questa vicenda solleva interrogativi fondamentali sull’amministrazione della giustizia in Italia. Come è possibile che una confessione venga ignorata per anni? Come si può condannare una persona basandosi esclusivamente su prove che ammettono interpretazioni alternative? E soprattutto, come si può negare il diritto alla revisione quando emergono nuove prove che potrebbero scardinare l’impianto accusatorio?
Il caso Pepi dimostra che, troppo spesso, la giustizia italiana si arena in meccanismi burocratici che finiscono per calpestare i diritti fondamentali della persona.
La battaglia legale dell’avvocato Lipera continua ora presso la Corte di Cassazione, con la richiesta di annullamento dell’ordinanza di inammissibilità e il rinvio degli atti alla Corte d’Appello. Ma al di là dell’esito processuale, la vicenda rimarrà comunque un monito sui rischi di un sistema che, nel tentativo di perseguire la giustizia, finisce talvolta per allontanarsene irrimediabilmente.