Il femminicidio diventa reato: un passo decisivo per la giustizia di genere

Il 7 marzo è stato approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio nel codice penale. Ma la battaglia è anche culturale.

Il Consiglio dei ministri ha approvato, lo scorso 7 marzo, lo schema del disegno di legge (come recita il sito del Ministero dell’Interno) relativo a “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”. Il provvedimento prevede l’introduzione nel sistema giuridico italiano del reato di femminicidio, qualificando come tale il delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità.

Il termine “femminicidio” fu usato per la prima volta nel 1992 dalla sociologa statunitense Diana Russel

Il termine si è diffuso tra l’opinione pubblica da qualche anno e i mass media, in seguito ai continui fatti di cronaca relativi a omicidi di donne in cui sono emerse le dinamiche specifiche del femminicidio. Fu usato per la prima volta nel 1992 dalla sociologa statunitense Diana Russel per indicare un assassinio ad opera di un uomo nei confronti di una donna in quanto tale. Il concetto non comprende, quindi, solo l’atto di uccidere, ma tutto il pregresso e il contesto in cui si forma l’evento, composto di abusi, prevaricazioni e discriminazioni continue.

La locuzione è entrata nel lessico comune e nel linguaggio di istituzioni internazionali come l’ONU e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nei femminicidi rientrano non solo gli atti di violenza contro le donne esercitati da compagni o ex, ma anche da padri, fratelli e parenti vari. Il termine è abbastanza ampio, per cui il reato è legato al contesto e, forse, sarà per questo motivo che non esistono statistiche pertinenti secondo questa accezione. I dati a disposizione sono stati prima raccolti e poi separati per avere una visione del fenomeno quanto più attinente alla realtà.

Nei primi sei mesi del 2024 sono stati registrati 141 omicidi, con 49 vittime donne, di cui 44 uccise in ambito familiare o affettivo

Sempre dal sito del Ministero dell’Interno è emerso che nei primi sei mesi del 2024 (1° gennaio- 30 giugno) sono stati registrati 141 omicidi, con 49 vittime donne, di cui 44 uccise in ambito familiare o affettivo: di queste, 24 sono state uccise da partner o ex partner. I fautori della negazione del femminicidio come delitto di genere, sostengono che gli omicidi di maschi sono, di numero, molto più numerosi di quelli femminili, per cui varrebbe la pena utilizzare, per questo tipo di reato, il termine “maschicidio” per darne la giusta significatività. Oppure in alternativa definirli “omicidi” tout court.

Ora se, statisticamente, è vero che il numero di uomini assassinati è più alto delle donne, si tratta di reati di altri tipo, non commessi per questioni di genere. L’uomo non viene ammazzato in quanto maschio, per cui vive un contesto di sopraffazioni di varia natura, ma per altri motivi. La consapevolezza del concetto di “femminicidio” permette di definire un fenomeno sociale con connotati ben stabiliti e trascurato, in passato, dalle istituzioni e dalla stampa. Spesso i fatti sono stati raccontati come “tragedie familiari”, incapacità dell’assassino di superare un tradimento o una separazione, ma poche volte come violenza di genere, sviluppatasi in un contesto di soprusi e di dipendenza psicologica ed economica della vittima.

Ci si augura che l’intervento legislativo mirato, associato all’adozione di una serie di misure di politica sociale per la difesa delle donne in particolari e difficili condizioni di vita, possa arginare quello che è un vero e proprio abominio della civiltà umana prima che giuridica: prevaricare e poi uccidere una persona per il suo genere sessuale!

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa