Disturbi da stress post-traumatico e senso di colpa del sopravvissuto sono disagi mentali che restano in agguato per molti anni.
Roma – La guerra produce danni anche quando finisce. Le guerre, connaturate all’uomo, hanno sempre causato morti, distruzioni di infrastrutture e danni all’ambiente. Le ripercussioni sui sopravvissuti, siano essi militari o civili, sono estremamente dannose: infanzia negata per i bambini (il pensiero che ce ne sono tanti nati con la guerra e vissuti con essa, provoca brividi di terrore e angoscia); adolescenti a cui viene interrotto il loro percorso di vita fatto di sogni e speranze; adulti a cui viene distrutto quello che hanno costruito fino ad allora e che devono piangere la morte dei propri figli. Gli ultimi conflitti bellici, Russia-Ucraina e Palestina-Israele, sono la testimonianza più palese di questo scenario.
Ma anche a guerra finita, gli effetti deleteri continuano a manifestarsi tra i sopravvissuti. Gli eventi del passato fanno irruzione nella loro mente con la stessa violenza e ferocia, provocando un continuo stato di allarme, agitazione, scarsa concentrazione, insonnia, incubi notturni. Gli esperti hanno definito questi sintomi “disturbo da stress post-traumatico” (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD). Si tratta di una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche. Definito e studiato negli Stati Uniti soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam e dai suoi effetti sui veterani, riproposti poi in tutte le più recenti esperienze belliche, il PTSD può manifestarsi in persone di tutte le età, dai bambini e adolescenti alle persone adulte, e può verificarsi anche nei familiari, nei testimoni, nei soccorritori coinvolti in un evento traumatico.
Il PTSD può derivare anche da una esposizione ripetuta e continua a episodi di violenza e di degrado o di disastri naturali. Un recente studio a cura della “Harvard Medical School”, una delle più prestigiose Scuole di specializzazione di medicina dell’Harward University, USA, su un campione di persone feriti durante i non rari, purtroppo, episodi di improvvise sparatorie, ha evidenziato che i rischi di disturbi per la salute mentale sono frequenti anche negli anni successivi ai fatti. Il fenomeno è talmente diffuso che ogni anno riguarda circa 85 mila persone sopravvissute a scontri con armi da fuoco. Anche per i rifugiati che fuggono da zone di guerra gli effetti sono devastanti, tanto che lo shock patito dai genitori può passare ai figli, anche quelli futuri, a causa di lievi cambiamenti ereditabili del genoma, una sorta di ansia ereditaria.
Le ferite psicologiche fanno fatica a rimarginarsi, restano marchiate a vita nel proprio inconscio. Tuttavia si stanno sperimentando una serie di terapie di psicologia clinica, soprattutto nei Paesi occidentali. Una di queste è l’approccio “cognitivo comportamentale”, attraverso cui si incoraggia il paziente a raccontare spesse volte lo shock che l’ha traumatizzato e ad affrontare, nelle fasi successive, gli episodi più angoscianti. E’ un modo, questo, per ridurre la risposta emotiva. E’ comunque un processo lungo e complicato, che qualche beneficio lo produce, ma le tracce del trauma restano sempre in agguato, pronte a palesarsi alle prime difficoltà della vita.
Un altro aspetto rilevante è il cosiddetto “senso di colpa del sopravvissuto”, ovvero l’infausta percezione di sentirsi baciato dalla dea bendata per essere sopravvissuto alla guerra. Secondo gli esperti il sostegno sociale della comunità potrà essere una forma di supporto reciproco, malgrado i sintomi potranno manifestarsi per molti anni. Il tempo, forse e un grande sforzo collettivo potranno attenuare il trauma della guerra. Si potrebbe evitarla, non facendola. E’ banale affermarlo, ma è così. Invece, è’ molto triste constatare come alcune peculiarità dell’essere umano siano rimaste immutabili nel tempo. Violenza, crudeltà, potere e guerre. E’ sempre la stessa storia!