Nel giorno del Ricordo la versione dei fatti nella ricostruzione storica e documentale del professor Samo Pahor
IN ESCLUSIVA PER POP
TRIESTE – Il “Giorno del ricordo” è una solennità civile nazionale, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Questa è la definizione che dà Wikipedia, la nota enciclopedia in rete, per la giornata del 10 febbraio. Ma per meglio comprendere la vicenda delle Foibe e il giorno dedicato ad esse non basta di certo una definizione sintetica. Piuttosto bisogna tornare indietro nel tempo, quando nei primi anni del 1800, in tutto il Continente europeo, dilagava un nuovo fenomeno politico e sociale dal quale origineranno tutti i nazionalismi moderni. In tutto questo grande fervore verrà coinvolto anche l’ex impero Austro-ungarico. Detto regime si estendeva su una superfice di circa 676.000 km² dove coesistevano etnie, culture e paesaggi linguistici tra i più variegati nella storia. In tale monumentale estensione, l’aspetto che più caratterizzava l’impero austriaco era lo spirito innovativo, futurista e scientifico. Difatti, sotto la guida dei kaiser, si sono succedute scoperte e scaturite idee innovative da parte delle più grandi menti pensanti del mondo.
Davanti a questo straordinario dinamismo non c’era da stupirsi se anche il sistema giuridico-legislativo fosse altrettanto avanzato. Ciò che stupisce invece è il fatto che, ancora oggi, sono in vigore leggi e normative di diretta provenienza di quell’impero che dopo 102 anni ormai credevamo essere morto e sepolto. Sotto il profilo culturale i kaiser ponevano particolare attenzione all’istruzione dei cittadini. Le scuole primarie erano libere e accessibili a tutti proprio per dare a ogni individuo la possibilità di esprimersi liberamente. I tassi di alfabetizzazione erano molto alti e questo garantiva anche una maggiore coesione e unità tra le diverse etnie che, vivendo sotto lo stesso tetto, altrimenti non avrebbero potuto interagire e convivere tra loro. Anche se i propositi, i mezzi e gli obiettivi della Corona erano, sicuramente, dei migliori, dall’altro lato le classi agiate si coalizzavano in una sempre più forte identità nazionale. Con sempre più radicato e maturo spirito nazionalista, le classi sociali più abbienti iniziarono a boicottare il popolo e l’impero stesso. Questa tendenza si evidenziava a macchia di leopardo in più zone del vasto territorio imperiale ma il versante dove questa tendenza si accentuava maggiormente comprendeva le zone del litorale austriaco – illirico, solo più tardi chiamato dagli italiani dapprima “Litorale – Veneto – Istriano” e più tardi “Venezia-Giulia”. Nei comuni gestiti e amministrati dagli italiani, prevalenti in quella circoscrizione per numero, non esistevano scuole elementari con lingua d’insegnamento croata o slovena, tantomeno si poteva considerare l’apertura di scuole di grado superiore.
La fine della Prima guerra mondiale, aveva stravolto i confini con la vittoria dell’Intesa sull’impero. Il Regno d’Italia si era timidamente espanso ricevendo nuovi territori, come premio per la collaborazione. Questi distretti erano caratterizzati da nuovi cittadini italiani di madrelingua slovena (28,7%), croata (10%) e tedesca (0,5%), più 1,5% di slavi cui non è stato riconosciuto il diritto di opzione per la cittadinanza italiana. Alcune centinaia d’intellettuali croati e sloveni erano stati internati, tra il 1918 e il 1919 e, tra questi, il vescovo di Veglia. Le nuove popolazioni riscosse dalla guerra non vengono percepite come una risorsa, men che meno economica. Le autorità italiane e l’élites istriano-dalmate si mostrano più interessate ai territori che alle comunità che li abitavano. Queste vengono percepite più come un “fastidio” che altro. L’iniziale antipatia e le incomprensioni si trasformeranno, ben presto, in odio razziale. Con l’avvento del Fascismo, la situazione peggiorerà di molto diventando sempre più cruenta e feroce.
Nel 1941 l’invasione della Jugoslavia da parte delle truppe italiane con i loro alleati segnerà un evento nefasto; una sorta di punto di non ritorno. Per tutta risposta il popolo iugoslavo vedrà come fumo negli occhi una Trieste sotto il tricolore. Di contro il movimento di liberazione, composto da triestini purosangue, si muoverà con le armi per riprendersi in toto la città Giuliana. Fra i vertici del movimento di liberazione ricordiamo il triestini Tone Tomsic, Milko Puntar e Ivan Sancini che, esuli dalla Venezia Giulia, erano appena arrivati nella neocostituita provincia di Lubiana. Dopo il primo scontro armato fra le opposte fazioni, nell’aprile del ’42, veniva dichiarato il coprifuoco e con questo l’inizio dello stato di guerra con la successiva costituzione, nel giugno dello stesso anno, del 23° corpo d’armata composto dalle divisioni Novara e Torino. Il numero di partigiani sloveni incomincia a crescere velocemente di numero tanto che nell’aprile del 1942 verrà costituito il primo battaglione. Come contraltare la prima grande unità destinata a liberare Trieste aveva carattere prettamente carattere militare, Giuliano e del tutto autoctono. Molti sloveni e croati militavano nell’esercito jugoslavo e provenivano da reparti dell’esercito italiano, compresi i “battaglioni speciali”. Per “liberare” Trieste, nel marzo del 1945, veniva costituita la 4° Armata Jugoslava che inglobava l’8° corpo d’armata dalmata, costituito da quattro divisioni dalmate, carri armati, artiglieria e da numerosi arruolati sloveni e croati provenienti dalla Venezia Giulia, che avevano giurato fedeltà alla Jugoslavia. Durante l’avanzata l’11° corpo d’armata croata, di cui faceva parte la 43ma divisione istriana composta da tre brigate istriane, veniva inglobato nel corpo d’armata che, ben presto, si sarebbe trovato con gravi perdite al seguito.
Nel 1945 le sorti della guerra si ribaltano, i due schieramenti si scontrano a Trieste per l’ultima battaglia. Da una parte le truppe del maresciallo Joseph Broz Tito, dall’altra i tedeschi i cui ranghi erano composti da militari di diversa estrazione specialistica. Mentre i due schieramenti erano in procinto di scontrarsi fra Stati Uniti e Russia scoppiava la “Guerra fredda” e a Yalta si decidevano le future partizioni. Le truppe alleate marciavano in fretta verso Trieste per incontrare le truppe comuniste onde occupare il territorio della Venezia Giulia. Gli alleati, Russia inclusa, avevano concesso a Tito l’annessione alla repubblica federale Jugoslava delle terre oltre Trieste, qualora le sue truppe fossero riuscite, oltre che ad avanzare, a conservare il consenso delle popolazioni locali. Alla luce di questi piani si doveva eliminare la testa di ponte tedesca ubicata nella località di Opicina. Il consigliere politico britannico presso il comando alleato del Mediterraneo, Harold Mac Millan rassicurava nell’aprile 1945 il governo italiano, che chiedeva insistentemente di conservare il confine del trattato di Rapallo (12 novembre 1920). Si stabiliva cosi che le truppe tedesche schierate non sarebbero riuscite ad uscire dal territorio italiano se non prima della fine della guerra. Decisione presa al fine d’impedire l’avanzata dell’armata jugoslava. Nei fatti le SS si ritiravano nell’aprile del 1945 mentre fanteria e marinai resistevano a Opicina sino al maggio dello stesso anno. Fonti storiche riportano un tacito accordo tra comandi tedeschi e alleati. I piani degli jugoslavi prevedevano di occupare tutto il territorio d’insediamento degli sloveni e di impedire ai tedeschi in fuga di raggiungere Trieste.
Dai colloqui di Tito, nel 1944 in Italia e nel febbraio 1945 a Belgrado, risultava evidente che gli alleati pretendessero d’impossessarsi di tutto il territorio lungo la ferrovia Trieste – Vienna, anche senza interessi diretti con la capitale austriaca. L’invasione neozelandese del campo di battaglia jugoslavo a Opicina comprovava l’esistenza della volontà di fare prigionieri i tedeschi e bloccare gli jugoslavi.
Le sorti della guerra verranno decise con la durissima battaglia di Opicina (Trieste) che, dopo cinque giorni e quattro notti di sangue, avrebbe visto la vittoria degli jugoslavi sulle truppe di Hitler. Per Tito la via verso Trieste era ormai sgombra.
Le truppe jugoslave, una volta giunte nella città Giuliana, nei 40 giorni di occupazione, si accanirono ferocemente spargendo violenze e morte fra l’inerme popolazione italiana, gran parte della quale era stata deportata dentro le foibe a seguito di una vera e propria, quanto inutile, pulizie etnica.
I martiri della Foiba di Opicina, denominata 149, a ben vedere i documenti storici, non sono Italiani irredentisti ma parte dei morti tedeschi nella battaglia di Opicina poi gettati in questa enorme voragine per questioni di mere esigenze igienico-sanitarie. Nella foiba 149, infatti, non si hanno notizie di italiani irredentisti trucidati.
La foiba di Basovizza, ora monumento nazionale, ed erroneamente definita così, è in realtà un
pozzo di una vecchia miniera abbandonata di lignite. Da fonti storiche attendibili si ha notizia che nel 1939 era stato recuperato il corpo di un abitante che viveva in questa località e poi precipitato nella miniera nel 1941. Era stato recuperato anche il corpo di una ragazza della stessa località. Altri testimoni oculari raccontano di aver visto agenti della guardia Civica gettare nella miniera diverse persone in più giorni. Ma c’è di più. Un ex ispettore della polizia Scientifica, tale Umberto De Giorgi, nel 1976 riferiva di avere ritrovato numerosi cadaveri che la banda Collotti (nucleo di polizia, sorto come tanti altri irregolari, per contrastare la lotta partigiana come la Sicherheit in Oltrepo pavese) aveva gettato in miniera dopo torture. Ad avvalorare la tesi ci sono anche i due storici Raoul Pupo e Roberto Spazzali. I due studiosi avevano fornito ulteriori testimonianze di altri ostaggi prelevati nell’autunno del 1943 durante l’offensiva nazifascista dalla località istriana di Brkini.
Dopo la battaglia di Basovizza dell’aprile 1945 la gente del posto aveva getto in miniera i corpi di militari in numero maggiore di quelli dei morti tedeschi, carcasse di cavalli da traino e gran quantità di materiale militare di diversa natura.
E’ da considerare leggenda metropolitana anche il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito dal 2 al 5 maggio 1945. Ma come si spiega questa colossale menzogna? Una traccia la ricaviamo da una denuncia datata 14 giugno 1945 inviata dal CNL triestino e alle autorità angloamericane nella quale si racconta che diverse persone vennero gettate nella miniera assieme alle salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi in battaglia oltre a diversi quintali di carogne animali putrefatte. Il 29 luglio del 1945, su Risorgimento liberale, giornale dell’omonimo partito, un giornalista scriveva di 400 persone uccise dai Titini, aggiungendo il ritrovamento di 8 soldati neozelandesi nella foiba di Basovizza. Due giorni dopo veniva pubblicata una laconica smentita da parte delle autorità alleate i cui motivi erano, e sono, facilmente intuibili. Sempre sul medesimo giornale, in data 5 agosto 1945, un articolo dal titolo “Dialoghi e Interviste” con tanto di richiesta al governo se fosse informato o meno sui “massacri” della “Foiba di Basovizza”, il delegato di governo rispondeva di “non avere notizie ufficiali né ufficiose”. Ma non basta. Un redattore dell’Ansa, intervistando il testimone oculare Cecil Sprigge, assistente in un reparto del genio Neozelandese, inviato in loco per verifiche ufficiali, concludeva l’articolo scrivendo che l’intervistato negava assolutamente l’esistenza di persone che avrebbero visto con i propri occhi il terribile eccidio poi diventato di risonanza mondiale. Anche il Piccolo di Trieste, in alcuni articoli del gennaio 1995 avrebbe pubblicato alcuni documenti angloamericani nei quali si legge un rapporto di ritrovamenti di pezzi anatomici di cavallo e cadaveri tedeschi. Sempre sulla stampa locale, gennaio 1995, in un rapporto del 15 ottobre 1945, poi declassificato, si menziona l’esiguità dei ritrovamenti ma non si parla di morti infoibati.
Tornando alla storia, nella realtà dei fatti, il servizio informazioni dell’esercito Jugoslavo, una volta giunto a Trieste, non si sarebbe dedicato a cercare italiani da infoibare solo per il gusto di farlo. I militari Titini si sarebbero preoccupati, invece, di perseguire persone iscritte sulle liste speciali, e già nelle loro mani da tempo, perché accusate di essere stati criminali di guerra. Nella stessa lista erano iscritte le spie civili (non tutelate dal codice di Guerra) e gli esponenti più in vista del partito fascista, oltre a qualche fiancheggiatore.
Alla lista della “morte” sarebbero stati aggiunti, arbitrariamente, i nominativi di civili innocenti approfittando del terribile caos causato dalla guerra. Detti cittadini, denunciati all’autorità di occupazione jugoslava da altri civili con finalità infami e banali come antipatie personali e ripicche, faide familiari e appropriazioni di proprietà private sottratte, erano stati poi giudicati da tribunali militari iugoslavi. In parte furono fucilati, altri incarcerati ed altri ancora liberati perché non colpevoli. Nessun martire, secondo Samo Pahor, sarebbe stato infoibato a Basovizza. Vero o falso?