Un dramma nell’ombra che i media ignorano: quando le vittime non rientrano nello stereotipo, anche la morte fa meno rumore.
I femminicidi, purtroppo, sono diventati fatti quotidiani, ordinari. Una furia inarrestabile a cui non si riesce a porre argine. Poi ci sono casi di donne anziane, uccise, dimenticate. Una coltre di oblio copre questi casi, come se una donna, anziana, ammazzata e dimenticata non meritasse alcun briciolo di dignità umana e nemmeno due righe in cronaca. In questi casi l’efferato omicidio non viene inquadrato nell’ambito di una relazione malata, basata sul potere di controllo maschile. Emerge, infatti, la visione di una relazione conclusasi in malo modo, con un “colpo di follia”.
I casi di femminicidi capitati ad una certa età, in realtà, sono tanti. A volte si tratta di donne in grave stato di disabilità, a cui il marito o compagno, che assumeva la funzione di caregiver, decideva di toglierle la vita per “mettere fine alle sue sofferenze”. Secondo un’indagine effettuata in Gran Bretagna, 1 donna su 8, negli ultimi 15 anni, sarebbe stata uccisa da un familiare. Neppure l’Italia sfugge a questo tragico epilogo. Nel 2022, 46 donne ammazzate erano di età superiore ai 65 anni, di cui 20 assassinate da un convivente. Secondo l’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) il rischio aumenta con l’avanzare dell’età. Eppure, la grande stampa non ne tiene conto, le considera polvere da spazzare via. Forse qualche riga nella cronaca locale.

D’altronde di violenza di genere sui media se ne parla solo quando ci sono casi eclatanti, poi tutto viene avvolto dall’oblio. Si preferisce la morbosità, le congetture, il sentito dire, optare per una scelta o un’altra. Mai un racconto completo, accurato, particolareggiato dei motivi che stanno alla base di fatti così efferati. Oppure, quando se ne parla, il racconto è frutto di stereotipi troppo radicati nel pensiero dominante. La vittima… “prescelta” dai media è una donna, giovane, bianca, appartenente alla classe media, con uno stile di vita corrispondente al ruolo di genere previsto dallo stereotipo. La sua unica “colpa” è di essersi trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato.
I media, tuttavia, subdolamente, cercano di portare la narrazione verso aspetti secondo cui, rendono la vittima più o meno responsabile o aver agevolato l’accaduto. L’aggredito che si trasforma in aggressore o in provocatore! Quando si tratta di casi che sono lontani da questo stereotipo, vengono addirittura coperti da una coltre di silenzio. Rientrano in questa categoria le donne non bianche, disabili, trans, anziane. Quando succede il “fattaccio” si evidenzia, di primo acchito, l’assunzione di droghe o se si erano fermate a chiacchierare con persone appena conosciute. Un capovolgimento del racconto: i fatti accessori, di contorno, diventano principali di fronte all’evento, che è il “casus belli”: il femminicidio!

Secondo il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, in cui si tiene il corso “Violenza maschile contro le donne: dal riconoscimento alla risposta operativa”, quando viene uccisa una donna anziana, ad esempio molto malata, si tende a trasformare l’atto violento come ineluttabile, perché il compagno o marito era allo stremo delle forze. In questo modo si riducono le responsabilità dell’assassino, spostando l’attenzione dalla “violenza strutturale sulle donne” a quella personale, intima. A rendere difficile la catalogazione, è l’isolamento sociale. La scomparsa di una rete di supporto, amici, parenti e colleghi di lavoro, dilata la fragilità, proprio perché è assente un contesto sociale, che possa riconoscere gli abusi e offrire degli strumenti per contrastarli. Che tristezza: donne giovani o anziane, abusate, ammazzate e quest’ultime pure dimenticate!