Il tema della violenza sulle donne per troppo tempo è stato sottovalutato, se non proprio ignorato. La storia delle sorelle Mirabal ci riporta alla cruda realtà. Che è necessario affrontare e cambiare. Seriamente.
Roma – Le scarpe rosse contro la violenza sulle donne. Una volta le scarpette rosse, negli anni ’50 del secolo scorso, erano il simbolo vincente della squadra meneghina di basket, l’Olimpia, che inanellò una serie di successi passati alla storia dello sport. Oggi, purtroppo, rappresentano il simbolo di una lotta, quella contro la violenza sulle donne, il tristemente noto “femminicidio”. Ogni 25 novembre viene organizzata la giornata contro la violenza di genere, istituita dall’ONU nel 1999 per ricordare le tre sorelle Mirabal, deportate, stuprate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana.
I dati sulle morti al femminile sono agghiaccianti. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) stima che sono oltre il 35% delle donne in tutto il mondo. La violenza di questo tipo scatena una serie di ripercussioni di cui, forse, si parla poco. Le famiglie vengono lacerate, ai figli viene negato, perché soppresso, l’amore materno e si trascinano problemi di dipendenza e povertà. La storia delle scarpe rosse risale al 1992, quando una donna, Julia, viene uccisa dal marito. Da allora la lista si è tristemente allungata.
La sorella di Julia, Elina Chauvet viene sommersa dal dolore, ma col tempo lo trasforma in arte e nel 2009, ben 17 anni dopo la tragedia, riesce a compiere la sua opera d’arte, un’installazione come reazione alla valanga di femminicidi accaduti nel corso degli anni ’90 del secolo scorso a Ciudad Juàrez, in Messico. Per Elina l’arte è stata, se non una cura del dolore, quantomeno, una sua giusta canalizzazione. Nel corso degli anni le scarpe rosse sono diventate una vero e proprio simbolo. Vengono, a volte, buttate e abbandonate nelle piazze nelle strade a testimoniare il male silenzioso e infido che continua imperterrito il suo cammino di morte. Sono lì a ricordarci che chi le indossava non c’è più, scomparsa per mano maschile assassina.
Oppure sono state perse nel vano tentativo di fuggire, di sottrarsi all’oltraggio del corpo. È molto probabile che sono state indossate per uscire la sera su richiesta degli stessi mariti o compagni, schiavi, però, della loro possessività. E per questo che sono state punite, come una sorta di castigo da parte di maschi immaturi che non sanno riconoscere l’altra da sé e impongono, fino al tragico esito finale, la loro concezione possessiva dell’amore.
Sono tante e diverse le storie che raccontano le scarpe rosse, ma con un tratto in comune: la violenza subita. Ogni 25 novembre durante la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, le scarpe rosse sono lì coi nomi delle vittime, all’interno di installazioni cittadine. Quest’anno i nomi sono stati incisi su foulard in seta che saranno venduti per potere istituire, grazie al ricavato, delle borse lavoro a vantaggio di donne vittime di abusi e indicate dai Centri antiviolenza della Liguria, per facilitare la loro introduzione nel mondo del lavoro.
L’intervento delle istituzioni e dell’associazionismo di base, laico e cattolico, per cercare di porre un argine a un fenomeno che scuote la coscienza collettiva, è utile quando c’è. Ma la vera chiave di volta è l’educazione ai sentimenti del maschio che latita in maniera grave. Solo così si potrà sperare di stroncare la scia di violenza contro le donne!