I richiedenti asilo sono in maggioranza donne che gestiscono tre famiglie: quella che è rimasta nel Paese d’origine, quella dove lavorano come badanti e quella che si sono fatta nel Bel Paese. Queste problematiche sono state affrontate in una videoconferenza organizzata dall’Associazione Donne Rumene in Italia.
MILANO – Almeno da cinque anni in Italia l’immigrazione è stazionaria. Sono 5,3 milioni i migranti presenti nel Bel Paese e, di questi, circa 300 mila sono i richiedenti asilo. Sono in stragrande maggioranza di sesso femminile, europei e di religione cristiana. Questi dati forniti da Maurizio Ambrosini, sociologo, docente presso il Dipartimento Scienze sociali e politiche dell’università Statale di Milano, servono a sfatare i luoghi comuni sull’immigrazione e confermare che la percezione del fenomeno è ben diversa dalla realtà. Le donne che vanno via dai loro paesi di origine lo fanno principalmente perché non hanno risorse sufficienti per poter portare avanti la famiglia, ma in tanti casi anche per fuggire alle violenze domestiche:
“…È triste dirlo – ha affermato Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione Donne Romene in Italia, nel corso del webinar su migrazioni e famiglie transnazionali che si è tenuto il 15 maggio scorso – ma in Romania ci sono tante donne che hanno sulle spalle il peso della famiglia, molti mariti spendono invece quel poco che guadagnano nell’alcool. Con questo non voglio generalizzare, ma è giusto spiegare alcuni contesti…”.
Le donne che arrivano in Italia trovano occupazione principalmente nelle famiglie che necessitato di colf o badanti, vengono quindi occupate h-24 e si trovano a dover gestire quelle che vengono definite le “tre famiglie”: quella per la quale lavorano, quella che hanno lasciato nel loro Paese d’origine e quella che costruiscono nella nazione che le ospita. È la classica composizione della famiglia transnazionale che registra importanti ripercussioni da un punto di vista socio-economico e che, in molti casi, produce effetti anche drammatici che culminano con forti crisi di depressione che portano anche a gesti estremi. Da qui il concetto di “figli sospesi”, bambini che vengono lasciati a casa nel Paese d’origine a volte assieme ai papà, altre volte con nonni anziani o, nella peggiore delle ipotesi, da soli. Sono gli “orfani bianchi”. Se ne stimano circa 250 mila solo in Romania (erano 750 mila fino a pochi anni fa) e, la loro condizione, si trasforma anche in dramma con tanti episodi di bambini che hanno manifestato squilibri mentali o che, addirittura, si sono suicidati.
Dopo qualche tempo di permanenza in Italia delle donne straniere, spesso avviene un tentativo di ricongiungimento ma non sempre va a buon fine. Mutano i ruoli, le donne gestiscono i soldi e conoscono la lingua, i mariti diventano dipendenti e non solo economicamente. Questi fatti, come sottolineato anche da Maria Grazia Vergari, psicologa, docente della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium di Roma – li portano a rifugiarsi nell’alcolismo e a diventare violenti: “…Oggi – sostiene Vergari – quando pensiamo ad attività finalizzate alla formazione o all’integrazione dei migranti, dobbiamo riflettere sul concetto di famiglia, quindi alle donne quanto agli uomini…”.
“…Non bisogna dimenticare – ha affermato Alessandra Montesanto, dell’associazione per i Diritti Umani – che le donne sono, prima di tutto, mogli e madri e per loro il percorso di migrazione è più doloroso che per altri soggetti: è vero che la tecnologia avanzata permette di mantenere i contatti con figli, mariti e genitori ma non è sufficiente. Il senso di colpa per averli abbandonati permane sempre; sono frequenti, purtroppo, casi di forte depressione e di suicidio sia da parte delle madri sia da parte dei figli, sottoposti a sentimenti di solitudine, inadeguatezza e vulnerabilità. Il ricongiungimento familiare è utile – anche se spesso frenato dalle procedure burocratiche – ma non risolutivo in quanto comporta necessariamente cambiamenti strutturali all’interno della stessa famiglia transnazionale: la madre diventa più autonoma economicamente, aumenta la sua autorevolezza nell’educazione dei figli, crea legami con altre donne, imparando la lingua del luogo in cui vive e lavora…E quindi si viene a creare un’alterazione nei rapporti di genere…”.
Insomma per riprendere e riadattare all’attuale situazione una frase di Max Frisch, “volevamo delle braccia, sono arrivate delle famiglie” occorre chiedere più tutele sindacali e maggiore sforzo della politica per favorire i ricongiungimenti familiari e l’integrazione soprattutto dei bambini. Molti forse non lo sanno ma esiste una sindrome che prende il nome dal nostro paese: la sindrome Italia. Ne ha scritto parecchio Marco Balzano, scrittore e insegnante che collabora con le pagine culturali del Corriere della Sera: la sindrome colpisce i componenti delle famiglie transnazionali romene e, in particolare, colf e badanti stremate da turni di lavoro estenuanti e i figli che soffrono per la lontananza dalle loro madri. Per curare la sindrome Italia c’è una terapia che può durare fino a 5 anni e che ha costi molti elevati.
Infine, dal webinar organizzato dalle Associazioni Donne Romene in Italia e per i Diritti Umani – che avrà sicuramente un seguito grazie alla collaborazione del Dipartimento Scienze sociali e politiche dell’università Statale di Milano – è arrivata l’esortazione alle Istituzioni perché favoriscano il diritto di voto dei cittadini stranieri chiamati, viceversa, ad esercitare tale diritto e ritagliarsi degli spazi nella governance del Paese.