Eutanasia, la viltà di una politica che ha deciso di non decidere

Il 74% degli italiani vorrebbe una legge che regolasse il fine vita e ponesse fine al calvario di molti malati. Ma il Palazzo preferisce non dividersi.

Il 57esimo rapporto del Censis fotografa l’Italia del domani e fornisce un’istantanea deprimente che inquadra una società sempre più vecchia e con le culle drammaticamente vuote. Ma ci dice anche che sembra giunta a maturazione una nuova stagione dei diritti civili sui quali i cittadini dimostrano di avere idee molto più chiare dei politici chiamati a rappresentarli. A partire dall’eutanasia, l’opinione che più salta agli occhi per la maggioranza “bulgara” (74%), evidentemente trasversale agli schieramenti politici, che si dice favorevole.

Invece in Italia una legge ad hoc sul fine vita continua a non esserci e nemmeno si scorge all’orizzonte, come se l’opinione dei cittadini contasse meno di niente. La politica si arrocca nel Palazzo, fa melina, decide di non decidere. Un comportamento che rasenta l’omissione d’atti d’ufficio e palesa una produttività da licenziamento in tronco, se ai parlamentari si applicassero le “pagelle” introdotte recentemente per i funzionari della pubblica amministrazione.

La latitanza dei partiti è tale che lo stesso suicidio medicalmente assistito è stato introdotto non per legge ma per sentenza, la 242 della Corte Costituzionale, che per fortuna ha valore di legge. Ma il suicidio assistito e l’eutanasia sono cose diverse. Il primo introduce condizioni stringenti non accessibili a tutti i malati che hanno scelto liberamente di porre fine alle proprie sofferenze. Inoltre non in tutte le regioni la prassi corre spedita, come per esempio in Veneto nel caso del vicentino Stefano Gheller, e obbliga chi già di tempo ne ha poco ed è segnato da una sofferenza indicibile ad affrontare lunghe battaglie legali nei tribunali.

In Italia l’eutanasia è reato, mentre è sancito dalla Corte Costituzionale il diritto al suicidio assistito 

Serve quindi una legge sull’eutanasia, che non discrimini e non lasci fuori nessuno e non costringa intere famiglie a viaggi della speranza all’estero per potere vedere rispettato un diritto che il proprio Paese continua a negare. La vorrebbe, come dice il rapporto, la maggioranza degli italiani, eppure il palazzo continua a fare spallucce.

Si diceva una volta che sui temi etici l’Italia scontasse la presenza ingombrante del Vaticano, capace con la sua influenza di stoppare ogni slancio liberale. Oggi, in una società altamente secolarizzata, la scusa non regge. Come si può constatare ogni giorno gli appelli di papa Francesco, uno su tutti quello sull’accoglienza dei migranti, rimangono inascoltati da un corpo elettorale che è sì per la maggioranza credente ma che ha scelto da tempo di decidere con la propria testa.

Ormai senza più scuse la politica continua a far flanella, sorda agli appelli disperati che giungono dai singoli malati impossibilitati a portare fino in fondo la propria libera scelta per assenza di una normativa che lo permetta. Si preferisce addirittura delegare le decisioni ai giudizi – salvo poi lamentarsi del debordare della magistratura -, prima quelli della Corte Costituzionali, poi ai singoli tribunali ai quali il radicale Marco Cappato si autodenuncia dopo aver “violato la legge” e accompagnato nella civile Svizzera malati ai quali il proprio Paese continua a negare una scelta di civiltà, il poter decidere della propria fine.

Il radicale Marco Cappato si batte da sempre per una legge sul fine vita

La ragione di fondo dell’inazione parlamentare è se possibile più imbarazzante della stessa apparente svogliatezza legislativa. Perché non è di questo che si tratta, su temi di gran lunga meno rilevanti la politica sa viaggiare spedita, piuttosto della paura nell’affrontare un nodo etico così scottante, dell’aprirsi al contributo e alla discussione con la società civile, di scoprire posizioni distanti, seppur legittime e rispettabili, perfino all’interno dei diversi schieramenti, financo nei singoli partiti.

Il timore che serpeggia è quello di restituire ai singoli deputati e senatori una libertà di voto che la disciplina di partito ha ormai definitivamente conculcato, trasformando i rappresentanti del popolo in soldatini in mano alle segreterie di partito, chiamati non a esprimere la propria opinione ma a ratificare posizioni preconfezionate dai vertici. La libertà, così ragionano i leader della nuova politica, è una condizione che i peones è meglio non assaggino, onde evitare in futuro che tornino a rivendicarla. La politica in sostanza ha deciso di non far politica per non dividersi e mettere a rischio lo status quo. Un paradosso la cui viltà viene quotidianamente scaricata sui malati e le loro famiglie, obbligati ad una doppia via crucis, prima quella devastante proposta dalla malattia e in seguito un’altra altrettanto perniciosa imposta loro dalla latitanza della politica che ha abdicato alla sua funzione primaria, quella di governare gli eventi e decidere. Scegliendo così l’irrilevanza.

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