ERMELLINI: WHATSAPP COME PROVE IN CAUSA

Le chat sono equiparate ai documenti dunque occhio a ciò che si scrive ad amici e nemici.

La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 1822/2020 ha sostenuto che i messaggi relativi alla chat di WhatsApp possono essere acquisiti al processo mediante il relativo screenshot, ovvero la fotografia dello schermo dello smartphone che li contiene. Gli screenshot sono, pertanto, equiparati a dei “documenti”, come possono essere una bolletta o un certificato medico, oppure a “intercettazioni di flussi”, poiché flusso non vi è, ma si tratta di una condizione di staticità. Non sono, inoltre, circoscrivibili a “corrispondenza”, la quale richiederebbe un’operazione di invio, mentre nel caso di specie si tratta di contenuti “giacenti” nella memoria del telefono.

Così ricostruita tale statuizione della Corte di Legittimità, potrebbe generare nei più una mancata comprensione dei potenziali gravi risvolti pratici. Intanto, appare una sentenza molto di aiuto agli inquirenti e che rende, al contrario, difficile la vita alla Difesa. Ora, il mio dubbio è il seguente: se la chat WhatsApp fosse un fake o fosse un contenuto già plasmato e modificato a piacimento dall’utente? Forse sarebbe il caso di usare una maggiore dovizia anche tecnica, oltre che di mero inquadramento giuridico, affinché le prove acquisite e utilizzabili al fine della decisione abbiano un grado di certezza “certificata”. Si possono, quindi, immaginare i più vari scenari, legittimati dalla Suprema Corte: chat alterate e fotografate successivamente, chat create ad arte, e non occorre essere dei grandi esperti informatici per realizzare dei contenuti realistici nei termini sopra descritti.

Quantomeno, nelle ipotesi dubbie o di contestazioni si dovrebbe pretendere l’esibizione del “supporto originario” a cui sono state scattate le foto della chat WhatsApp. Ma anche qui si apre un altro scenario: se gli inquirenti possono procedere semplicemente a fotografare uno smartphone, difficilmente questo sarà stato oggetto di sequestro e di conservazione con le cautele richieste dalle best practices di computer forensics.

Purtroppo la sentenza in esame sembra la logica prosecuzione di una serie di interventi in cui la Corte di Cassazione ha già ribadito che non conta se si siano o meno usate le migliori pratiche di forensics nell’acquisizione della prova, ma è necessario dimostrare in concreto se e dove è avvenuta un’alterazione del supporto e del suo contenuto.

Tale scenario sembra da brividi, soprattutto se consideriamo che ormai tutti i processi si basano, nella totalità o in parte, su prove informatiche che, in questi termini, potrebbero possedere ben pochi elementi di certa integrità e rischiano concretamente di non fornire la certezza sul contenuto reale di cui sono “immagine”.

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