La straordinaria avventura industriale del manager marchigiano, il primo a proporre quel progetto di sviluppo per l’Africa che oggi Meloni rilancia.
Roma – La Seconda guerra mondiale con le sue distruzioni rischiò di mettere la parola fine a qualsiasi velleità di autonomia energetica dell’Italia, tentativo che negli anni Trenta aveva incontrato dei faticosi ma significativi successi. Uscita distrutta dal conflitto, l’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli), la compagnia di Stato nata nel 1926 pareva avviata ad una rapida liquidazione, il patrimonio di conoscenze e alte professionalità aziendali acquisite sul campo disperso per sempre, il Paese destinato a subire il totale controllo straniero sulle strutture e sul mercato petrolifero interno.
Premevano al dispiegarsi di questo misero scenario più forze concentriche. Agli americani che avevano investito un fiume di denaro – e investiranno ancora – per la liberazione e il rilancio dell’Europa interessava allungare le mani sulle ricerche Agip e sui suoi pozzi. Spingevano per la liquidazione dell’azienda, esempio deleterio di carrozzone burocratico fascista, gli ambienti di sinistra in comunione d’intenti con quelli più liberali e filo-americani della neonata Democrazia Cristiana.
Ma proprio dal ventre della futura Balena Bianca emerse l’uomo che avrebbe impedito quello scempio, il demiurgo del rinascimento energetico del Paese, trampolino di lancio per il miracolo economico italiano degli anni Sessanta. Si chiamava Enrico Mattei, classe 1906, e non pareva avere le stimmate dell’uomo della provvidenza. Marchigiano di Acqualagna, alle spalle una famiglia modesta, il giovane Enrico a scuola non brillava, tanto che il padre, sottufficiale dei carabinieri, dopo il diploma alle professionali lo avviò direttamente al lavoro in fabbrica. Difficile intravvedere allora in quel ragazzino senza particolari talenti il futuro capitano d’industria che avrebbe fatto dell’ENI una multinazionale del petrolio e portato l’Italia, un paese senza energia, a giocare le sue carte al tavolo del mercato internazionale degli idrocarburi. Il talento nascosto di Mattei stava nella capacità di sognare in grande e di mettere al servizio dei suoi sogni una straordinaria capacità organizzativa, unita alla solida etica del lavoro ereditata dalla famiglia.
Prima nelle Marche e in seguito a Milano, l’industria divenne la sua palestra di vita: operaio e poi contabile, quindi agente di commercio e infine responsabile di un’attività tutta sua, quando ancora non aveva trent’anni, azienda che colse buoni successi nel settore chimico. Valido combattente e ottimo diplomatico, durante la Seconda guerra mondiale partecipò alla guerra partigiana tra le fila dei “bianchi”, i resistenti di matrice cattolica, dividendo l’impegno in montagna con alcuni degli uomini che avrebbero creato la Democrazia Cristiana e condotto il Paese durante la ricostruzione. Fu quello un periodo fecondo per Mattei, grande tessitore di relazioni, che gli valse solide entrature sull’uno e sull’altro fronte politico.
A guerra finita la Dc lo incaricò di liquidare l’AGIP e tutti suoi asset energetici. Mattei, invece, giunse a conclusioni opposte, convincendosi che quell’azienda allora in pezzi avrebbe potuto avere un futuro, perfino florido. Convinzione temeraria basata su un’intuizione geniale: era inutile cercare nel sottosuolo italiano un petrolio comunque fuori mercato rispetto alla concorrenza, meglio concentrarsi sui giacimenti di gas, energia con la quale non si muovevano le autovetture ma si poteva far viaggiare l’industria. Un azzardo che il tenace Mattei decise di giocarsi con i soldi presi a prestito dalle banche – dallo Stato non arrivò una lira – denari con i quali si comprò il tempo che la politica non voleva concedergli.
Alla lunga, però, la sua renitenza a chiudere la pratica AGIP divenne sospetta e la Dc, pressata dagli americani, dovette rimuoverlo dall’incarico. Uscito dalla porta, Mattei rientrò in Agip dalla finestra dopo le elezioni del ’48, allorché un suo compagno di guerra partigiana, Marcello Boldrini, ne assunse la presidenza nominandolo braccio destro. E siccome la fortuna aiuta gli audaci gli venne in soccorso la scoperta di un nuovo giacimento di gas a Ripalta, vicino a Crema, il primo di una lunga serie di successi inanellati dai tecnici della compagnia.
La chiusura poteva ormai dirsi scongiurata, l’AGIP guidata con piglio decisionista da Mattei si rese protagonista di un’escalation senza precedenti, dotando il Paese in pochi anni di una rete di gasdotti tra le più ramificate del mondo. Il futuro presidente dell’Eni si sarebbe poi vantato di aver trasgredito in quel periodo di frenetico lavoro oltre 8mila ordinanze, aggirando in questo modo il pachidermico apparato burocratico del Paese. Le squadre di tecnici e operai dell’Agip incaricate di interrare i tubi del gas agivano nelle città italiane con il favore delle tenebre, ponendo i sindaci la mattina dopo di fronte al fatto compiuto, primi cittadini ai quali venivano poi recapitate le scuse di un falsamente costernato Mattei. L’AGIP pagava le eventuali multe ma guadagnava comunque tempo e denaro.
Spregiudicatezza che divenne una delle cifre distintive del supermanager marchigiano venuto dal nulla. Come nel 1949, quando fece della scoperta di un piccolo giacimento di petrolio nei pressi di Cortemaggiore, vicino a Piacenza, un evento epocale, chiamando a raccolta i giornalisti e guadagnandosi le prime pagine dei quotidiani. Abile venditore, Mattei continuò a vellicare l’orgoglio nazionale proponendo la Supercortemaggiore, “potente benzina italiana”, alimentando un abbaglio di autosufficienza energetica che bastò a ingraziargli l’intero arco costituzionale italiano. A destra sognavano l’autarchia, a sinistra lo sgarbo ai capitalisti americani. Così nessuno ebbe nulla da dire quando nel febbraio del 1953 nacque l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) di cui Mattei divenne presidente e pure direttore generale.
Cavalcando l’onda riempì l’Italia di distributori di gas e di benzina, inventò i Motel Agip sulla scorta di quelli americani, acquisto la fabbrica meccanica del Pignone in grave crisi, trasformandola nella Nuova Pignone e ponendola al servizio dell’ENI. Conquistati gli italiani, nel 1952 li chiamò a cimentarsi nel concorso di idee indetto per scegliere il logo da affiancare alla benzina Supercortemaggiore. Vinse il cane a sei zampe, un animale impossibile, sintesi grafica perfetta del miracolo compiuto dall’ENI di Mattei: convincere l’opinione pubblica che anche nel settore degli idrocarburi il Paese sarebbe stato all’altezza delle enormi speranze riposte nella ricostruzione post bellica. Il successo del marchio diventato subito iconico, quasi un presagio del boom economico prossimo venturo, fece decidere a Mattei di sceglierlo come logo identificativo dell’intero gruppo ENI. Il pubblico sapeva che all’apparire del cane a sei zampe c’era un distributore, un meccanico, un pasto caldo.
Ma siccome le bugie hanno le gambe corte (come quelle del mitologico cane dell’ENI) Mattei era consapevole che il suo bluff su Cortemaggiore non avrebbe retto a lungo. Il pozzo padano era già agli sgoccioli e il decantato petrolio made in Italy ridotto ad un misero rivolo. Dove andare quindi a pescare la benzina per rifornire i moderni distributori sorti come funghi sul territorio? Non certo dalle “sette sorelle”, definizione coniata dallo stesso Mattei per identificare le compagnie internazionali che si spartivano il monopolio del petrolio e fissavano il prezzo del barile: Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon), Anglo-Persian Oil Company (poi British Petroleum), Mobil, Chevron, Gulf e Texaco.
Con il suo agire autonomo e anticonvenzionale, il manager italiano era già entrato nella loro lista nera e probabilmente figurava ai primi posti perché mai avrebbe accettato il ruolo del questuante con il cappello in mano. L’ENI doveva fare da sola. E Mattei si superò, trasformando la debolezza in punto di forza. Lucido visionario, il “marchigiano di ferro” scelse il gioco di sponda, lo schema alternativo che scompagina lo status quo. E trovò lo spazio operativo dove gli altri vedevano soltanto un muro invalicabile.
L’idea era semplice e per questo geniale: rivolgersi all’altra sponda del Mediterraneo e pescare il petrolio necessario all’Italia direttamente dai Paesi produttori, ai quali proporre fruttuosi accordi di partenariato. Mattei non si presentò guardandoli dall’alto in basso, come avrebbe fatto un qualsiasi rappresentante delle “sette sorelle”, ancora intriso di spocchioso spirito coloniale, bensì nel ruolo del potenziale socio paritario, consapevole dello sforzo immane che attendeva questi Paesi appena usciti dallo status di colonia per avviare un percorso autonomo di sviluppo economico e sociale.
Il 10 giugno del 1960 a Tunisi, Mattei pronunciò un discorso che avrebbe fatto invidia a Fidel Castro, sebbene fosse il parto di un industriale italiano in quota Dc. Non propose contratti capestro, non cercava sudditi o clienti deferenti, piuttosto soci ai quali riconoscere generose royalties e la prospettiva di uno sviluppo locale legato al petrolio, un percorso virtuoso accompagnato da capitali e tecnologie italiane. Intorno ai pozzi sarebbe nato un distretto petrolchimico, una rete distributiva, non da ultimo una catena di motel, primo embrione della futura ricettività turistica.
Agli attoniti maggiorenti tunisini disegnò un manifesto di possibile fuoriuscita dall’arretratezza coloniale, non un semplice accordo commerciale come si attendevano, quanto piuttosto un progetto politico rivoluzionario in grado di minare alla radice il paradigma occidentale di perpetuo sfruttamento dei paesi sottosviluppati e delle loro risorse primarie.
Non solo Mattei chiuse l’accordo con la Tunisia, ma a tambur battente l’ENI allacciò nuove e proficue intese in Libia, Marocco, Egitto e Iran. L’Italia aveva trovato il suo petrolio, ad un prezzo equo, senza lasciarsi strozzare dalle “sette sorelle”. Ambizioso e quando serviva duro – la sfida di Mattei alle companies del petrolio si condiva anche di inusitate asperità dialettiche – il manager era ormai considerato l’uomo più influente d’Italia, capace di orientare le scelte politiche del Paese. Con freddo cinismo avrebbe confessato: “Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo”.
Insofferente ad ogni steccato, con le spalle ormai coperte dal petrolio africano, Mattei scelse di differenziare ancora la lista dei fornitori, spingendosi dove nessuno aveva mai osato. In piena Guerra Fredda, mentre a Berlino nasceva il Muro, decise di scavalcare la Cortina appoggiandosi alla mediazione di un altro ex partigiano, Luigi Longo, già comandante generale delle brigate Garibaldi ed esponente di primissimo piano del Pci. Così ottenne a basso costo il petrolio sovietico, aggirando il cartello imposto dalle “sorelle”. In cambio i russi ebbero materiali e tecnologie per la costruzione di oleodotti e alcune petroliere varate da Fincantieri. Un articolo al vetriolo pubblicato dal New York Times lo accusò di essere filosovietico e l’Italia “di non rispettare i patti del dopoguerra”, oltre ad aver compromesso “futuri equilibri politici”.
Poco male, Mattei guardava agli interessi italiani non a quelli d’Oltreoceano. Infatti con sorprendente preveggenza – probabilmente oggi sarebbe stato un paladino delle energie rinnovabili – posizionò il Paese all’avanguardia anche sul fronte del nucleare. A metà degli anni Cinquanta aveva creato AGIP Nucleare e sul finire del decennio dato il via ai lavori per la centrale di Latina, la prima in Italia e, allora, la più potente d’Europa. Ma non fece in tempo a inaugurarla. Il 27 ottobre del 1962 l’aereo privato con cui stava tornando a Milano da Catania, assieme al pilota Irnerio Bertuzzi e lo statunitense William McHale, giornalista della testata Time- Life, incaricato di scrivere un articolo su Mattei, precipitò nelle campagne di Bascapè, nel Pavese, durante un violento temporale. L’inchiesta si chiuse “nell’impossibilità di accertare le cause dell’incidente”. Con gli anni la sua morte si è trasformata nell’ennesimo mistero italiano, un buco nero dentro al quale sprofondò anche il progetto industriale di autonomia energetica del Paese, che infatti tornò a dipendere dai grandi produttori internazionali.
A sessant’anni dalla scomparsa, oggi che l’Italia è di nuovo un vaso di coccio schiacciato tra i ricatti russi e le interessate strategie americane, l’agenda di Mattei appare più attuale che mai, basti vedere il recupero in atto della via mediterranea all’energia, tracciata a suo tempo dal presidente dell’ENI. Mattei rappresenta ancora la coscienza strategica dell’Italia, l’orgogliosa consapevolezza di avere i mezzi per evitare il declino e l’anonimato. Occorre però recuperare la sua lucida lezione: la politica estera del Paese deve coincidere con quella energetica, perché nessun paese avanzato può dirsi davvero libero se è ricattabile sul fronte delle risorse.