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Dopo il “burnout” arriva il “rust-out”, e il lavoratore non ha più stimoli

Una patologia che colpisce soprattutto le donne: impegnarsi di più dei colleghi maschi, crea l’humus fertile per la diffusione dei sintomi.

Roma – La vera malattia è il lavoro! E’ proprio un vero e proprio tiranno questo benedetto lavoro! Il totem per eccellenza, a cui vengono offerte in sacrificio tante vite umane. Non è mai esistita, forse, alcune società che non si sia sviluppata su di esso, con le diverse peculiarità di ogni epoca storica. Gli studiosi delle sue dinamiche e degli effetti che esercita sulle condizioni psicofisiche dei lavoratori, dopo il “burnout” hanno scoperto il “rust-out”. Col primo termine si intende uno stato di esaurimento da troppo stress lavorativo. Col secondo, una condizione di perdita di motivazione sul lavoro. La sensazione è quella di sentirsi ‘arrugginiti’ di fronte a mansioni che sono diventate talmente ripetitive da non suscitare nessun interesse e nessuno stimolo.

Non si può mai stare tranquilli: produce criticità sia quando è troppo che quando è poco stimolante. Proprio una vera patologia! L’idea sarebbe una via di mezzo. Ma quale? Stabilire il grado di pressione che agisce da stimolo e quello che provoca stress è un’impresa ardua. Comunque, secondo l’UniSR Lab della Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano “è una reazione quasi simile al burnout. Mentre in quest’ultimo lo svuotamento di energia è una risposta di difesa per le eccessive richieste, il rust-out, invece, è un calo di energie per mancanza di stimoli motivazionali”. In linea generale, per quanto rognoso da sopportare, esso rappresenta la risposta fisiologica dell’organismo per adattarsi al solito tran tran.

Se i compiti affidatici diventano abitudinari, si finisce per utilizzare minori energie per portarli a termine e, alla fine della giostra, ci si sente demotivati. Si investono tante energie in rapporto alle difficoltà dell’incarico ricevuto. Quindi, più si incontrano difficoltà, maggiori sono le energie investite. Questa situazione provoca degli effetti sia fisiologici, ad esempio con la crescita del battito cardiaco, che psicologici, con la sensazione di sentirsi coinvolti e di impegnarsi al massimo. Se un’attività diventa banale, scontata, l’organismo nella sua interezza investe meno energie, riducendo la motivazione. Quando le operazioni diventano insignificanti, con molta probabilità si riduce anche l’efficacia, con effetti deleteri sulla prestazione. Questo perché cresce la distrazione e diminuisce la concentrazione e si commettono più errori.

Non potevano mancare i consigli della Psicologia, assurta a ruolo di “pronto soccorso del sapere”. Il segreto è l’ “esperienza di flusso”, ovvero se un’attività è sufficientemente stimolante, si entra in una simbiosi quasi perfetta con quello che si sta facendo, da cui ne scaturisce immenso piacere. Tuttavia, bisogna stare attenti alla perfidia del “rust-out”, che seppur considerato una condizione lavorativa, manifesta i suoi nefasti effetti nella vita quotidiana. Il fenomeno… preferisce attecchire, soprattutto, le donne. Il fatto che, per avere successo sul lavoro debbano impegnarsi di più dei colleghi maschi, crea l’humus fertile per la diffusione del rust-out.

Ma, prima di farsi prendere dall’avvilimento, è utile avere cognizione del problema, perché demotivazione e carenza di stimoli possono essere la molla per cambiare lo status quo. Ma l’aspetto più deludente dell’intera questione è che l’essere umano, definita la specie più intelligente in natura, non abbia saputo trovare un’alternativa al lavoro per vivere. Nell’ipotesi migliore provoca rust-out, nella peggiore burnout o peggio. Inoltre, rappresenta un problema sia se lo si ha che non: nell’uno e nell’altro caso provoca disagi per diversi motivi. E se venisse abolito? Beh, siamo nel campo delle chimere, nemmeno di utopie!

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