Il ‘cahier de doleance’ è corposo: meno pagate degli uomini, precarie e non supportate da servizi assistenziali adeguati.
Roma – L’Italia fanalino di coda in Europa per l’occupazione femminile. Una notizia diffusa dall’ANSA, la prima agenzia di informazione in Italia e tra le prime al mondo, nei primi vagiti del 2024, ha fatto andare di traverso tutte le cibarie e lo spumante consumati durante le festività natalizie, almeno a chi ha in serbo ancora qualche briciola di senso civico e di giustizia sociale. Non è che abbia sorpreso più di tanto nel senso che si era a conoscenza del fenomeno. Il Servizio Studi della Camera ha presentato un dossier sull’occupazione femminile nel nostro Paese.
Il ‘cahier de doleance‘ è corposo: le donne sono meno pagate degli uomini; sono precarie e in settori di seconda fila; la carenza di servizi sociali adeguati per armonizzare vita e lavoro determina, spesso, che molte lasciano il lavoro dopo aver avuto un figlio. Questo quadro dolente colloca il Bel Paese all’ultimo posto in Europa per l’occupazione femminile. Una collocazione che dovrebbe far arrossire di vergogna i tanti ciarlatani della politica, che straparlano sulla parità di genere, mentre la realtà li smentisce spudoratamente. Un’altra criticità si appalesa nel rapporto con l’altro sesso. Le donne, pur rappresentando il 51,2% della popolazione, secondo il censimento del 2021, nell’occupazione lavorativa raggiungono i 9,5 milioni, mentre i maschi 13.
Una fotografia della realtà che dovrebbe far riflettere. Com’è che, pur essendo in maggioranza, sono in minoranza nel mondo del lavoro? Qui gatta ci cova. Le discrepanze tra i generi scaturiscono dall’origine stessa della struttura sociale ed economica, dove le redini del potere sono in mano agli stessi gruppi sin dagli albori della civiltà. Una classe sociale, quella detentrice di risorse finanziarie, ha sempre dominato su un’altra, la classe lavoratrice che, come ha dimostrato la storia, ha continuamente subito i cambiamenti imposti dalla prima. A rendere possibile questo meccanismo ci ha pensato il ceto politico, che ha favorito e legittimato il potere di chi deteneva i cordoni della borsa.
Per quanto concerne i titoli di studio, le donne, ad esempio, si laureano in tempi più brevi dei maschi e con risultati migliori. Quindi, sono più preparate, più competenti, hanno più difficoltà nel trovare lavoro e quando raggiungono l’obiettivo, sono pure retribuite peggio! E’ una situazione di fatto che stride con tutta una serie di principi nazionali e internazionali, sanciti dagli ordinamenti giuridici, in cui si parla di uguaglianza, parità e giustizia sociale. Concetti esternati da politici di professione, che credono di enunciare componimenti che passeranno alla storia, ma in realtà perdono il loro autentico significato, quando fuoriescono da quelle che i pellerossa definivano “lingue biforcute”, ovvero false e traditrici.
Ed i fatti confermano: nel 2022 la retribuzione media annua, secondo i dati INPS, è risultata “costantemente più alta” (come recita il rapporto) per i maschi rispetto alle donne di quasi 8 mila euro in media. Inoltre, la bassa partecipazione al lavoro da parte della donna è dovuta dall’occupazione ridotta e, spesso, precaria, in comparti poco strategici, dalla diffusione del part time (49% donne e 26,2% uomini).
Infine, la penuria di servizi socio-assistenziali, come l’assistenza all’infanzia e di asili nido, che non riescono a soddisfare le richieste di iscrizione, soprattutto al Sud. A pagare il conto più salato è, come al solito, Pantalone, ovvero i più deboli e indifesi che non riescono a sostenere il costo delle rette. E’ inutile, comunque, presentare report, studi ricerche su un fenomeno già conosciuto che andrebbe affrontato seriamente e risolto definitivamente, se poi i decisori politici stanno con le mani in mano!