Striscione disoccupazione giovanile

Disoccupazione giovanile: chi è il colpevole?

Le nostre statistiche sulla disoccupazione giovanile non sono brillanti, ma la vera catastrofe è sui numeri dei Neet. C’è chi dà la colpa alla scuola, chi allo Stato, chi agli stessi giovani. Ma la risposta, al di là dei facili allarmismi, richiede una analisi più profonda delle cause.

Roma – La disoccupazione giovanile è un tema sempreverde nel giornalismo: c’è sempre, esiste da sempre e permette di fare views facili creando indignazione a buon mercato. Ma per capirne le cause bisogna andare un po’ più a fondo, e valutare i vari aspetti. Innanzitutto: il divario sulla disoccupazione vera e propria non è ampio come sembra, anche se la situazione non è ottima. Molto più grave il problema dei Neet, coloro che non studiano, non lavorano e non vogliono farlo. C’è un problema di motivazione per i giovani? C’è qualcosa che non va nella cultura del lavoro? Colpa della scuola scollegata dal mondo? Lo Stato dovrebbe veramente fare di più?

Striscione giovani disoccupati

Il falso problema e il vero problema

Quel fastidioso 9,5% di giovani in cerca di lavoro e che non riescono a trovarlo – i disoccupati veri e propri, dunque -, è brutto da vedere, ma non così terribile come può sembrare a primo acchito. In molti paesi con percentuali migliori delle nostre (la media europea è 7,7%) una percentuale alta di questi occupati è costituita da lavoratori part-time, che da noi sono relativamente pochi. Non è neanche vero, secondo l’analisi di Claudio Negri, che i giovani italiani siano particolarmente sottopagati rispetto ai loro coetanei europei, o che siano costretti a fare lavori molto peggiori.

Il vero problema è quello di chi evita il mercato del lavoro: i famigerati Neet, giovani “nullafacenti” che non lavorano, non cercano lavoro e non si formano. Qui il dato fa veramente paura: il 25%. Tre milioni di giovani: una enormità. Ma è anche un dato che suggerisce un quadro diverso del contesto lavorativo. Il mercato del lavoro italiano è peggiore di quello europeo, per quanto concerne i giovani, ma non così tanto: il problema della disoccupazione giovanile è generale. Molto più serio è il problema di chi lo rifiuta in toto. Una questione, dunque, che non può essere solo economica, ma anche socio-culturale. E deve essere per forza colpa di qualcuno.

Indiziato n. 1: lo Stato

Partiamo con i dati strutturali, quelli che contano. Ossia: cosa fa (o non fa) lo Stato italiano per contrastare la disoccupazione giovanile? Le misure con cui una nazione può facilitare l’occupazione giovanile sono tre: incentivi e agevolazione, formazione, orientamento/aiuto all’inserimento. Vediamo come lo Stato italiano ha deciso di agire su questi tre fronti.

  1. Sull’ambito degli incentivi, lo Stato si è mosso soprattutto attraverso sgravi ad aziende e imprese, e qualche piccolo finanziamento per le aziende aperte da Neet.
  2. Sull’ambito della formazione, lo Stato si appoggia molto alle aziende, specialmente sul tema dei tirocini. Iniziative originali come l’alternanza scuola-lavoro sono state pesantemente osteggiate, specialmente dai sindacati.
  3. Sull’ambito dell’inserimento non c’è quasi niente, a esclusione del buon servizio offerto da Garanzia Giovani. Altri servizi sono pressoché inutili – al punto che alcuni politici hanno proposto di trasformare Informagiovani in una “Agenzia per il Lavoro e la Formazione”.

Insomma, cosa fa lo Stato? Poco e male, come al solito. Ma è difficile dare interamente la colpa alla politica – in fondo, si può al limite dire che essa non è in grado di formulare contromisure adeguate, non di certo che è nelle sue politiche la causa del problema.

Indiziato n. 2: la scuola

Due mondi che non comunicano, a differenza di come accade in altri paesi europei. E non può finire bene…

Qui, invece, andiamo a toccare tasti più insidiosi, sul terreno del “problema culturale“. L’istruzione italiana ha un ruolo in questo fenomeno? Di certo, l’immagine di una scuola completamente scollegata dal mercato del lavoro torna continuamente nei discorsi sulla disoccupazione giovanile. Le istituzioni educative, dunque, come “fabbriche di disoccupati”.

Visione estremista, senza dubbio, ma un fondo di verità ci deve essere. Il dialogo tra scuole e aziende è quasi inesistente: il tentativo di forzare la mano con l’alternanza scuola-lavoro è osteggiato fortemente dal personale delle scuole stesse, spesso con polemiche strumentali sugli incidenti. Più di metà degli studenti non percepisce di ricevere dalla scuola una educazione in grado di permettergli di avere successo professionale.

L’impianto della scuola italiana – fortemente tendente alla teoria, impostato a un risultato più “ideale” (creare adulti e cittadini) che pragmatico (creare lavoratori) è indubbiamente segnato da un certo disprezzo per il mondo del lavoro, di matrice tutta marxista. Non è una scuola che prepara male i ragazzi, ma semplicemente una in cui il lavoro è un tema così lontano che i diplomati non sono, di fatto, psicologicamente preparati per affrontarlo.

Pesante, anche, lo stigma degli istituti professionali e tecnici, in cui studiano poche migliaia di ragazzi – istituti che creano figure, quali elettricisti, tecnici e artigiani, di cui il mercato del lavoro ha un bisogno disperato. La Germania è il paese con il minore numero di Neet in assoluto – e guarda caso, le scuole tecniche sono frequentate da centinaia di migliaia di ragazzi.

Insomma, la scuola ha una responsabilità importante – quella di rifiutare, o comunque rallentare, l’integrazione tra istruzione e lavoro.

Indiziato n. 3: i giovani stessi

Rimaniamo sul tracciato del “problema culturale”. Se i Neet sono così tanti, la risposta più semplice potrebbe essere quella della vulgata tradizionale: i giovani contemporanei sono pigri, non hanno voglia di fare gavetta, vogliono avere tempo libero. Una risposta semplicistica, ovviamente. Ma ci potrebbe essere del vero?

Indubbiamente, le nuove generazioni valutano il tempo libero come qualcosa di molto importante, più che in passato. Ma non ha alcun senso pensare che, potendo, i giovani non vogliano guadagnare soldi. A molti Neet non fare niente fa comodo, ma per la maggior parte, per una semplice questione di pressione sociale, familiare e spese, lavorare è una scelta naturale, potendo.

Certamente, c’è una minore propensione ai lavori di fatica: i giovani preferiscono lavori più creativi, e sono spesso legati all’orizzonte del lavoro d’ufficio. Ma il fenomeno Neet ha sfumature più psicologiche: una certa confusione generazionale, l’incapacità di pensare in termini di carriera e di progetto, il famoso “blocco” che impedisce di uscire dalla stasi. I Neet italiani sono giovani confusi, non viziati.

Conclusione: questioni di cultura in una repubblica “fondata sul lavoro

Il problema della disoccupazione giovanile, in Italia, sembra essere in fondo legato a una serie di profondi fraintendimenti sulla natura del lavoro e del suo mercato. La maggior parte dei giovani, specialmente quelli che non studiano all’università, non ricevono una istruzione specifica su come costruire un percorso, come formarsi, o anche solo, come scriversi il curriculum. Ancora peggio, un pericoloso stigma avvolge mansioni come quelle di operaio specializzato, artigiano o tecnico, considerati lavori da schiavi quando spesso la loro retribuzione supera quella dei pari di grado in ufficio.

La fatidica domanda del “cosa voglio fare da grande” dovrebbe diventare un imperativo già dei sedici anni in poi. La scuola dovrebbe dare attivamente gli strumenti – materiali e psicologici – attraverso cui un giovane può farsi un’idea delle possibili carriere da intraprendere, del percorso formativo che serve per arrivarci, degli stipendi che offrono e dello stile di vita che impongono. Il disprezzo per il lavoro non porta da nessuna parte: come recita la Costituzione, il lavoro è e resta una delle sfera dove un individuo si realizza, e ottiene la sicurezza – materiale e mentale – necessaria al suo pieno sviluppo.

In sostanza, è necessario lavorare molto seriamente su come aumentare l’informazione: un ufficio di collocamento può fare del bene, ma non otterrà mai gli stessi risultati di un percorso ben impostato fin dall’inizio.

Da qui, la necessità di un maggiore dialogo da scuola e imprenditoria: non per la questione (annosa e retorica) di un’istruzione “svenduta” all’imprenditoria, ma di onestà ai ragazzi, che hanno il diritto di sapere quali sentieri di mestiere e di vita possono effettivamente portarli a raggiungere i propri obiettivi.

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