Dilaga la “fobo”, il terrore della disconnessione con il mondo digitale

La paura di essere offline e l’ansia che alcuni provano quando non riescono ad accedere a Internet si sta diffondendo a macchia d’olio.

Roma – Uno strano malessere si aggira tra i comuni mortali: la fobo! Ormai lo smartphone è penetrato nelle nostre vite in maniera così virulenta tanto da essere considerato come un senso ulteriore a quelli tradizionali che madre natura ha deciso di donarci oppure come un’estensione di noi stessi. Siamo talmente legati a questo dispositivo elettronico da essere un tutt’uno con esso. Al punto che è sorta un nuovo malessere: la paura di essere offline, conosciuta col termine “fobo”, acronimo di “fear of being offline”. Si tratta della condizione di panico e angoscia che assale coloro che, per una qualsivoglia ragione, non hanno la possibilità di accedere ad Internet, una sorta di paradiso virtuale!

Il ritmo del lavoro è diventato, per molti, frenetico, quasi asfissiante che, ormai, è consuetudine controllare le email anche quando si è fuori dal contesto lavorativo o in vacanza. Spesso ci si giustifica dichiarando di aver risposto solo ad un messaggio veloce o di aver controllato qualcosa di cui non ci si ricorda di aver completato. Questa tendenza è diventata quasi pandemica (tanto per usare un aggettivo a cui ci siamo, purtroppo, abituati in questi anni) da aver…attratto una moltitudine di persone. Il lavoro pare essere organizzato come un meccanismo che stritola coi suoi ingranaggi, per cui molti avvertono la sensazione di non poter fare un break senza sentirsi colpevoli. Ed è così che si realizza la famigerata “fobo”, ovvero il terrore della disconnessione seppur per un solo attimo col mondo digitale. Ci si dovrebbe, tuttavia, preoccupare di restare connessi con sé stessi e le proprie emozioni, altroché!

Questa dipendenza dalla tecnologia è la rappresentazione sintomatica di una forza lavoro completamente asservita ad essa, non in grado di staccarsene sia fisicamente che mentalmente. Il fenomeno non è nato per caso, ma è stato un processo che viene da lontano. Si pretende tutto e subito, dalle incombenze più banali al lavoro. La pandemia ha solo accelerato un processo già in essere. Da allora, infatti, viene richiesto ai lavoratori più compiti di prima, per cui la loro angoscia cresce al solo pensiero di disconnettersi, perché potrebbero aver perso delle opportunità. Inoltre, si è amplificata l’idea del lavoro da casa.

Se, da un lato, ne è scaturita più flessibilità di orari e di luogo, dall’altro, la tecnologia ha reso possibile lavorare ovunque e dovunque. Se l’attività lavorativa può essere inserita nel proprio dispositivo tecnologico, tenuto in tasca tutto il giorno e sul comodino la sera acceso h24 e 7 giorni su 7, appare difficile non avvertirne il fiato sul collo. Un dipendente sempre rintracciabile a qualunque ora del giorno e della notte può essere considerato il non plus ultra dal management, ma incrina il benessere psicofisico del lavoratore. Si è diffusa enormemente la teoria secondo cui prendersi delle ferie è come mostrarsi vulnerabili e fragili. Un perpetuo stato d’ansia, per cui non ci si prende mai una pausa. Eppure l’adrenalina è sempre in circolo, il cortisolo prodotto è tanto e l’incapacità di gestire lo stress cresce di pari passo. Infine, l’iperconnessione riduce il rendimento della produttività, quindi è, anche, antieconomica.

La moderna psicologia del lavoro consiglia alle aziende di attivare una cultura secondo cui vanno accettati i cosiddetti “tempi morti” sia come ferie che come pause durante l’attività professionale. Per i dipendenti, il consiglio è di limitare l’uso dei social e allo spegnimento dello smartphone. Un’antica canzone partenopea “Comme facette mammeta” recita “Nun c’è bisogno ‘a zingara p’andivinà, Cuncé”, a significare che non c’è bisogno dello specialista per scoprire l’arcano. Nel nostro caso: non c’era bisogno della psicologia del lavoro per fornire le succitate indicazioni. Poteva, benissimo, riuscirci qualunque persona comune!

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