La torbida vicenda che ha portato al congedo “forzato” un coraggioso agente di polizia che aveva denunciato la presenza di amianto nei cantieri dell’alta velocità.
GENOVA – In questo nostro Bel Paese sempre più intollerante chi denuncia passa dalla parte del torto, chi non lo fa gode di benefici. E dire che non si fa altro che parlare di legalità ma, evidentemente, ci si riferisce ad una sorta di refrainpubblicitario a cui nessuno crede più. Come in questo caso.
La vicenda iniziava diversi anni addietro quando venivano inaugurati i cantieri per la costruzione delle linee ferroviarie per l’alta velocità, la cosiddetta Tav. In uno di questi cantieri, quello di Cravasco, ricadente nel territorio del comune ligure di Campomorone, venivano poste in essere, oltre alle attività di scavo della galleria di 1.262 metri totali per la variante del Terzo valico, anche opere di adeguamento del cantiere, stante la massiccia presenza di amianto (di cui sono composte gran parte delle montagne dell’appennino Ligure in quella zona) ed altri scavi su rocce ricche di asbesto.
Questo, come altri cantieri, era gestito dal Cociv ovvero il consorzio collegamenti Integrati Veloci, nella qualità di General Contractor, a cui era stata affidata la progettazione e la realizzazione della linea ferroviaria AV/AC (alta velocità e alta capacità) della linea Milano Genova Terzo Valico dei Giovi.
Il Consorzio, guidato da Salini Impregilo, nel 2011, con la firma dell’atto Integrativo, vedeva l’apertura dei primi cantieri e l’avvio della realizzazione della più importante opera infrastrutturale nazionale. Un’opera miliardaria, tanto chiacchierata quanto utile o inutile a seconda degli interessi politici del momento e delle aziende che avevano le mani in pasta con l’appetibile progetto.
L’amianto, però, fa male alla salute e anche all’inizio della colossale impresa che ha sventrato valli e montagne, la cosa era risaputa da anni. Ma davanti al denaro, si sa, anche il terribile mesotelioma, il letale cancro causato dall’amianto, può aspettare e farsi da parte a vantaggio di chi ha fatto e fa soldi a palate in barba a leggi e regolamenti. Insomma quelli badano ai propri interessi in danno di operai e lavoratori e spesso la passano liscia, ma chi denuncia scandali e disastri, altrettanto spesso, viene trattato alla stessa stregua di un criminale da coloro i quali avrebbero dovuto conferirgli una medaglia. Peggio ancora se il denunciante indossa una divisa con la quale diventa garante della sicurezza dei cittadini.
La sicurezza non è soltanto legata alla protezione dei deboli dai forti, delle persone oneste dai delinquenti e così via, ma anche deputata alla protezione della salute pubblica da chi, per soldi e mazzette, ritiene di poter fare e disfare a suo piacimento provocando nocumento alla collettività.
Il protagonista di questa storiaccia all’italiana è Stefano Calabrò, 46 anni, già assistente capo coordinatore della polizia di Stato a Genova.
L’unica colpa dell’agente è stata quella di aver relazionato il pericolo che correva assieme ai suoi colleghi (inclusi i cittadini residenti, gli operai e chiunque si trovasse nelle immediate vicinanze delle zone contaminate) durante i turni di vigilanza presso i cantieri della Tav: “… La vicenda è iniziata nell’estate del 2015 – racconta Calabrò – quando ero in servizio alla Digos presso l’ufficio Controllo del territorio che gestiva le pattuglie denominate “Delta 77”. Detto ufficio, diretto dal dirigente Francesco Borrè, disponeva il monitoraggio h24 dei cantieri allestiti in Liguria per i lavori ferroviari del Terzo Valico dei Giovi, con particolare attenzione rivolta al cantiere di Cravasco, nel comune di Campomorone. In quel periodo accertavo la congrua presenza nell’aria delle pericolosissime polveri amiantifere a seguito di fuoriuscita del micidiale pulviscolo durante le perforazioni della montagna. Senza alcun tipo di misure di sicurezza dovevamo comunque vigilare il cantiere divenuto insalubre, esponendoci alle micidiali fibre dell’asbesto. Nell’agosto del 2015 denunciavo tutto questo ai miei superiori e da quel momento iniziava il mio calvario…”.
Un calvario che continuava inesorabile giorno dopo giorno, fiaccando gli entusiasmi, e la salute, del bravo e coraggioso agente di polizia: “…Ma che cosa avrei dovuto fare? – si chiede Stefano Calabrò – girarmi dall’altra parte mentre centinaia di persone respiravano il pulviscolo d’amianto durante le perforazioni delle montagne? Era questo quello che certe persone ai vertici avrebbero voluto ma io mi sono arruolato perché ritenevo di essere al servizio della collettività e non di chi specula e si arricchisce sulla salute altrui. Dopo le denunce del 2015 relative al cantiere di Cravasco, nel comune di Campomorone, sono incominciati i miei guai…”.
Nel medesimo periodo Stefano Calabrò ricopriva la carica dirigente sindacale del SIAP. Il sodalizio sindacale, stante le denunce di Calabrò, aveva aperto una vertenza contro i vertici dell’ufficio di polizia preposto per comportamento antisindacale nei riguardi del personale perché mai informato dai propri superiori in merito ai dati ufficiali delle analisi di Arpa-Liguria e Asl relative ai controlli delle fibre di amianto disperse nell’aria presso il cantiere TVG di Cravasco.
A seguito di quella vertenza i vertici dell’ufficio di polizia subivano una condanna dal tribunale del Lavoro ma per Stefano Calabrò la situazione peggiorava di giorno in giorno: “… L’osservatorio nazionale Amianto – racconta Calabrò – a firma del presidente Ezio Bonanni aveva resa nota un’approfondita analisi della massiccia presenza di amianto proprio nelle alture di Cravasco con grande pericolo per i lavoratori della Tav e di noi stessi che esercitavamo la vigilanza senza alcuna precauzione. I miei dirigenti non volevano sentirne e ci obbligavano a lavorare lo stesso. Ricordo ancora con grande rammarico il giorno in cui chiesi di visionare la documentazione dell’osservatorio Amianto ricevendo un sonoro diniego mentre il dirigente sbatteva i pugni sul tavolo ordinandomi di prendere servizio in cantiere subito e senza indugio perché, secondo lui, non c’era pericolo alcuno…”.
Il pericolo c’era e continua ad esserci ed è notorio che respirare le fibre di asbesto senza apposite maschere FFP3 NRD e superiori predisponga l’organismo all’incubazione del mesotelioma pleurico. Questa patologia è certamente asbesto-correlata, dunque perché il dirigente di polizia avrebbe dichiarato il falso al personale dipendente?: “… Questo lo accerterà la magistratura – aggiunge Calabrò – per quanto non c’è pericolo di amianto, dicono gli scienziati, soltanto quando la sua presenza è pari a zero! Dunque di che cosa stiamo parlando? Perché mandare i lavoratori al massacro e, in linea generale, perché esporre a gravi malattie anche gli operai della ditta costruttrice e le popolazioni viciniore? Amavo il mio lavoro, l’ho sempre fatto con il massimo impegno e rispetto del nostro giuramento, ho messo in conto di morire nell’adempimento del dovere, ma non per amianto o per aver cercato di sensibilizzare i miei superiori sull’esposizione al micidiale asbesto con la richiesta di dotare il personale di dispositivi di protezione individuale. No, non me la sono sentita, come altri, di diventare complice e colluso…”.
Calabrò è stato poi messo da parte e dapprima destinato ad altri servizi. Successivamente sottoposto a richiami e provvedimenti disciplinari che l’hanno portato verso l’aspettativa. Per ultimo le denunce alla magistratura, numerose, corpose e particolareggiate come ogni buon poliziotto dovrebbe fare: “…Il mio assistito ha portato i fatti all’attenzione della procura della Repubblica di Genova – conclude l’avvocato Daniele Pomata, legale di fiducia del poliziotto – mediante esposti circostanziati. Ci siamo posti fin da subito, nelle forme previste dalla legge, a disposizione dell’autorità Inquirente per supportarne lo sforzo investigativo in cui riponiamo piena fiducia. Per contro ritengo sia più che comprensibile che chi porta all’attenzione dell’autorità giudiziaria elementi di una certa rilevanza, che peraltro lo vedrebbero come parte lesa, attenda poi risposte esaustive e tutela…”. Insomma sino ad ora Calabrò è rimasto solo. Solo ma circondato dall’affetto dei suoi cari e della stima di migliaia di persone perbene.
Poi, giorni fa, il tristissimo epilogo della squallida vicenda: Stefano Calabrò non indosserà mai più alamari e fondina. Una visita medica lo ha dichiarato inabile al servizio con motivazioni che non stanno né in cielo né in terra. Com’era già accaduto per tanti altri suoi colleghi di sventura. Adesso è il momento dei ricorsi, forse li vincerà. In attesa che la giustizia faccia il suo corso.