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D… DI DECORO

nei giorni della connessione continua, della condivisione continua, dello sbandieramento continuo di fatti più privati che pubblici, la difesa del proprio sentire potrebbe essere il modo più moderno ed attuale per dare valore a se stessi

Sarà perchè provo amore per Proust, sarà perchè l’Europa decadente mi affascina ancor oggi, sarà perchè… ma, è fatto, a questo punto noto, che a me piace presentarmi a voi come “cacciatrice di parole” che abbiano sentore di un passato, così passato d’aver sapore di dimenticanza o da aver trasposto il loro significato.

E’ il caso di D come decoro, vocabolo che noi usiamo frequentemente: art decor, decori d’interni, decori d’esterni, decori natalizi… Ma io non ho alcuna intenzione di parlarvi di roccaille o di grotesque, peraltro forma d’arte applicata pregevolissima, poco praticabile nel nostro funzionale quotidiano, preferisco tornare, invece, a quella accezione polverosa, borghese, alquanto vittoriana di “decoro” = dignità che nell’aspetto, nei modi, nell’agire è conveniente alla condizione sociale di una persona o di una categoria.

Posso affermare di fronte a voi che in me non alberga alcun sentimento di nostalgico rimpianto, nè spirito di ricerca vintage, piuttosto, il mio, è un atteggiamento salvifico che nel particolare caso presente, si rivolge ai termini della lingua italiana ed ai concetti che occupano la nostra mente in un caotico andirivieni, ma che potrei anche rivolgere ad altro genericamente inteso. Ecco… a me piace il recupero, ma un recupero selezionato, dipanato che non si possa confondere con un bric-à-brac proposto come antiquariato. Razionalmente, per scelta, dall’osservazione della nostra vita del tutto normale, vado a scegliere ciò che, a mio avviso, è stato eliminato con una facilità che si potrebbe persino definire faciloneria se questo vocabolo, a sua volta, non ne sapesse di celato malanimo.

Ed il decoro è, infatti, qualcosa di cui non si parla più e, ahimè (ahinoi) neanche, in questo caso, posso suggerire che si sia trasformato in altro. Io non faccio confusione tra decoro e bon ton: non m’interessa che Boris Johnson posizioni i suoi piedi sul tavolino presidenziale dell’Eliseo, non m’interessa che Trump disdica una visita ufficiale nel Paese che gli rifiuta l’acquisto della Groenlandia (!!!) con la stessa tranquillità con cui, febbricitante, si troverebbe a disdire la partita a tennis con l’amico, no, decoro nel suo significato b è il sentimento di dignità, di coscienza che si addice alla propria condizione ed io desidero intendere questa parola come inerente alla sfera intima della personalità di ogni individuo, che va a presentare un modo di essere, più che un modo di vivere.

Lo so, e l’ho premesso, il concetto è polveroso: sa di perbenismo, di obsoleto eppure… Forse, pensandoci meglio, potrebbe avere anche un certo sentore d’ipocrisia; può darsi. Vedete: decoro va a braccetto con un’altra parola che è “decenza”: entrambe iniziano con la lettera d, entrambe soffrono di inattualità. La loro definizione, dal consueto dizionario Treccani, sembra appartenere alla sfera sociale, poichè legata ad un ceto, ad una categoria e questo è assolutamente vero, anche se, come ormai sapete, a me piace andare a stravolgere con ipotesi diverse ciò che viene normalmente accettato. Per esempio si potrebbe continuare a dissertare sul decoro andando a dire che “è il saio che fa il monaco” (eccome se lo fa!), ma preferisco fare riferimento al suo sinonimo di “decenza” pensando a quell’ambito personale, a quell’intimità che solo il riserbo, la discrezione, la dignità può proteggere e riservare.

Io desidero ricordare il decoro-decenza proprio nel senso a suo tempo adoperato da Montale e, dunque, come unica condizione di riferimento per la propria esistenza e per la propria attività, desidero instillare il sospetto che nei giorni della connessione continua, della condivisione continua, dello sbandieramento continuo di fatti più privati che pubblici, la difesa del proprio sentire potrebbe essere il modo più moderno ed attuale per dare valore a se stessi, agli altri, al proprio e all’altrui cuore ed alla propria e all’altrui mente. Com’è possibile intuire, io non sono una fautrice dei social, però neance li ho mai messi in discussione perchè, libera io di non usarli, ritengo che altri debbano scegliere la forma e il mezzo più adatto per tenersi in contatto con chiunque loro credano opportuno. Tuttavia non ho sentito la necessità di chiedere una riflessione sul fatto che la condivisione totale potrebbe rivelarsi una solitudine prima individuale e poi universale, no: a me è venuto da evocare la condizione del decoro, da disseppellire la decenza.

E’ stato quando, veleggiando sui social (perché anch’io sono iscritta), ho trovato la comunicazione di qualcuno per il decesso di una persona particolarmente cara, strettamente legata, in tempo reale. E’ stato a questo punto che mi sono fermata. Chi conosce ciò che avviene nel nostro animo in quel frangente (e chi non lo conosce) non può che stupirsi, forse rimanere anche sbigottito nel riscontrare che il primo impulso possa essere quello di postare la notizia. Ricerca di affetto ecumenico? Ricerca di un ricordo globale? Urlo traboccante nel mondo? Annullamento del tempo di reazione ad un dolore troppo grande? Ho le domande, ma non le risposte.

Ho un sospetto, un sentore, fors’anche il desiderio che il decoro voglia un ritorno al pudore dei sentimenti e non per convenienze sociali, ma per una recuperata dignità dei sentimenti propri e degli altri, quasi un sussulto di desueta, rimpianta signorilità.

m.r.

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