Con l’artista siciliano se ne va un pezzo di storia della musica italiana di rango. Una nicchia colta ed evoluta, sperimentale e sempre work in progress. Mai scontata. Il cantautore non si è mai schierato politicamente nonostante certa critica lo considerasse un radical chic di sinistra
Milo – Si è spento a 76 anni, dopo una lunga malattia, Francesco Battiato. Lo chiamavano tutti Franco («anche mia madre») da quando Giorgio Gaber glielo aveva consigliato per non confondersi con Francesco Guccini.
Ma nella sua carriera il cantante ha avuto molte identità, aperto com’era alla costante sperimentazione. Ogni genere o filone nel quale l’artista etneo si è gettato con passione ha giovato del suo talento e con la stessa moneta lo ha ripagato: dal cantautorato al Progressive Rock, dal Jazz alle orchestre sinfoniche.
Col tempo ha saputo conquistare critica e pubblico non solo italiani, senza mai tradire il percorso personale cominciato nell’ormai lontano 1967, quando proprio l’amico Gaber gli procurò il contratto d’esordio con Ricordi. Verranno poi i Settanta, gli anni della protesta, l’Avanguardia e i primi accenni romantici. Molte sono state le collaborazioni proficue, fra cui è bene rammentare quella col violinista Giusto Pio, il duetto con Alice, i brani per Milva, gli arrangiamenti di Tullio De Piscopo e il sodalizio col filosofo catanese Manlio Sgalambro.
Battiato è stato anche teatro, pittura e cinema, ambito quest’ultimo col quale ha dialogato quasi sempre a distanza e con non poche frustrazioni da ambo le parti. Una falsa partenza si ebbe nel 1978, quando la Rai rifiutò le sue musiche per un film televisivo su Brunelleschi. Poi però venne Nanni Moretti, il quale prima monta “Scalo a Grado” sulle immagini di “Bianca” (1983) e “I treni di Tozeur” in una scena di “La messa e finita” (1985) e poi addirittura intona a squarciagola “E ti vengo a cercare” in “Palombella rossa” (1989).
L’artista siciliano, nell’ultimo decennio della sua vita, è stato anche regista ma con risultati non straordinari. Niente a che vedere con quelle citazioni morettiane che lo ponevano in chiaro contrasto col presente e ne ricodificavano l’afflato rivoluzionario per criticare la sinistra italiana e l’intera società. Eppure Battiato non è mai stato politicamente facile da interpretare, non si è mai davvero schierato se non in senso antisistemico o quantomeno autarchico. Non a caso l’intera sua carriera è stata votata alla ricerca di una profondità.
Infatti nella filosofia espressa in album quali “L’era del cinghiale bianco” e “Orizzonti perduti” – fortemente influenzata da studi autonomi sulle culture mediorientali, l’esoterismo e la meditazione trascendentale – l’individuo deve bastare a sé stesso e trovare quell’ormai celeberrimo centro di gravità permanente.
Un equilibrio di emozioni e pensieri che forse oggi, dopo i giusti e sentiti saluti, dovremmo fare nostro per cercare di applicarlo ad un’esistenza sempre più schiacciata da confusione e sofferenza. Grazie maestro.