Al momento nulla di certo ma si apre uno spiraglio. L’iscrizione sul registro degli indagati della Pm Ruggeri ha fatto scalpore. Il magistrato inquirente si era occupato di Yara Gambirasio sin dalla scomparsa della ragazza per poi indagare sul suo omicidio. La Ruggeri ha sempre ritenuto Bossetti l’unico e solo colpevole del terribile delitto.
Bergamo – Tre gradi di giudizio e una condanna all’ergastolo: questo è il bilancio giudiziario che ha chiuso l’inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio che sino ad oggi ha visto un solo colpevole: Massimo Bossetti. Il muratore di Mapello era stato già “condannato” sin dal suo arresto. Ricordiamo le infelici parole dell’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando annunciava in tv la cattura del mostro di Brembate. Poi chi non ricorda il lungo iter processuale, i colpi di scena, la secretazione degli atti, Il Dna andato perduto, la perquisizione dei giornalisti prima di entrare in aula e le decine di milioni di euro dei contribuenti spesi per le indagini che, sin dall’inizio, si erano dirette a senso unico.
Ma il caso di Yara Gambirasio non è ancora chiuso e potrebbe andare verso la revisione. L’iscrizione sul registro degli indagati della Pm Letizia Ruggeri indubbiamente ha fatto scalpore. Il provvedimento è stato deciso dal Gip di Venezia Alberto Scaramuzza che ha inteso sottoporre a indagine il magistrato inquirente per frode processuale e depistaggio in merito alla conservazione dei reperti biologici depositati agli atti e che hanno portato in galera il carpentiere di Mapello. Letizia Ruggeri, milanese, 56 anni, è stata il sostituto procuratore che si è occupato delle indagini prima sulla scomparsa dell’atleta di Brembate di Sopra, il 26 novembre 2010, e poi sul suo omicidio a seguito del ritrovamento del cadavere a Chignolo d’Isola il 26 febbraio del 2011.
Sul corpo della giovane era stata repertata una traccia di Dna che, in assenza di altri indizi utili, era diventata la prova regina dell’intera inchiesta. Quella traccia, infatti, avrebbe portato ben presto alla creazione del profilo genetico del sospettato, denominato “Ignoto 1“, per trovare il quale vennero eseguiti test genetici a tappeto su tutti gli abitanti di Brembate e paesi viciniori, per un totale di 22mila esami eseguiti. Poi l’identificazione di Massimo Bossetti come il possibile Ignoto 1, avvenuta mediante lo stratagemma del finto posto di blocco con tanto di prova dell’etilometro da cui si otteneva il suo Dna.
L’acido Desossiribonucleico combaciava con quello di Ignoto 1, nonostante diverse lacune ritenute trascurabili dall’accusa e dal collegio giudicante ma che erano fondamentali invece per la difesa. Con quella prova si arrivava ad “incastrare” Bossetti che, ieri come oggi, ha sempre professato la propria innocenza. Seguiva un lungo e travagliato iter giudiziario durante il quale la difesa dell’imputato, rappresentata dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, aveva sempre eccepito l’impossibilità di ottenere quel Dna per dimostrare l’estraneità alla morte di Yara da parte del loro assistito.
Dopo la sua condanna al fine pena mai, nel 2018, le 54 provette contenenti le tracce biologiche di Bossetti e di Yara vennero spostate dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio corpi di reato del tribunale di Bergamo, su decisione proprio della Ruggeri. All’epoca dei fatti sarebbero occorsi 12 giorni per compiere il tragitto Milano-Bergamo e non si sa com’era stato conservato il materiale biologico. Secondo i legali di Bossetti l’ipotesi più plausibile: una volta interrotta la catena del freddo il fluido contenuto nelle provette si sarebbe inevitabilmente deteriorato rendendo impossibili nuove analisi. Quel trasferimento, diciamo poco accorto, contenuto nella denuncia dei difensori dell’ergastolano, in uno con l’opposizione all’archiviazione, ha fatto scaturire il provvedimento del Gip veneto che ha competenza per i magistrati inquisiti di Bergamo.
Di contro il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, ha evidenziato che i residui organici sarebbero “rimasti regolarmente crio-conservati, a -80 gradi, in una cella frigorifera dell’istituto San Raffaele fino a novembre 2019, quindi oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della sentenza della condanna e solo successivamente venivano confiscati come prevede il Codice di procedura”. Per ben due volte la Corte d’Assise di Bergamo aveva negato l’accesso ai reperti biologici:
” ll Gip accogliendo le nostre richieste – dice Sergio Novani, ordinario di Procedura penale e consulente di Bossetti – ha ritenuto necessario valutare la condotta della dottoressa Ruggeri in relazione alla corretta conservazione dei 54 reperti biologici di Dna”. Il resto si vedrà.