Boris Giuliano, 45 anni fa l’omicidio dello “sceriffo” che aveva capito Cosa nostra

Investigatore moderno capace di rivoluzionare il lavoro della Polizia, il capo della Squadra Mobile di Palermo viene freddato da sette colpi di pistola esplosi alle spalle da Leoluca Bagarella.

Palermo – Il killer gli è scivolato alle spalle, soltanto così avrebbe potuto ucciderlo, come fanno i vigliacchi. E’ la mattina del 21 luglio 1979: Boris Giuliano, il poliziotto più amato di Palermo, lo “sceriffo buono” come lo chiamano per quei baffoni da detective americano e l’innata umanità che lo contraddistingue, sta pagando il caffè bevuto come sempre al bar “Lux”, in via Di Blasi, poco distante dalla sua abitazione. Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, è alla sua prima missione importante, alcuni testimoni lo vedono tremare come una foglia, poi gli spari, sette in rapida successione, l’ultimo alla nuca quando già il vicequestore è disteso a terra in un lago di sangue.

Quarantanove anni, tre figli ancora bambini, Boris Giuliano, siciliano di Piazza Armerina, era vicequestore e capo della Squadra Mobile di Palermo. Tra i pochi investigatori italiani dell’epoca a conoscere l’inglese e l’unico ad aver conseguito una specializzazione presso l’FBI americana, a Quantico in Virginia, dal momento del suo insediamento nel capoluogo siciliano, Giuliano aveva portato sul campo nuove metodologie d’indagine, condivise con una squadra di uomini a lui legatissima, a partire dalle analisi dei conti bancari per rintracciare i flussi di denaro riconducibili al traffico internazionale di droga gestito da Cosa Nostra.

Poliziotto moderno, Giuliano rivoluzionò le metodologie d’indagine

Siciliano di Piazza Armerina, dove era nato il 22 ottobre 1930, figlio di un sottufficiale della Marina, Giuliano aveva trascorso l’infanzia in Libia, dove il padre era di stanza, fino al 1941, quando con la famiglia si era trasferito a Messina. Conseguita la laurea in Legge, nel 1962 vinse il concorso da ufficiale in polizia e, al termine del periodo di formazione, chiese di essere trasferito a Palermo dove entrò a far parte della squadra mobile, prima alla sezione omicidi e poi dal 1976 come dirigente, succedendo a Bruno Contrada,

Da capo della squadra mobile, Giuliano si trovò ad indagare su alcuni dei casi più scottanti della storia italiana a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. A partire dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel 1970, mentre indagava per conto del regista Francesco Rosi – che stava lavorando al film “Il caso Mattei” – sull’ultimo viaggio del fondatore dell’Eni in Sicilia, al cui ritorno sarebbe morto nell’incidente aereo nelle campagne del Pavese. Prima di scomparire nel nulla, De Mauro aveva promesso a Rosi notizie importanti, utili a sostenere la tesi dell’attentato. Giuliano approfondì la pista che legava la scomparsa di De Mauro proprio alla morte di Mattei.

Nel 1978 Giuliano fu incaricato delle indagini sull’omicidio del boss mafioso Giuseppe Di Cristina, che da qualche mese aveva iniziato a passare informazioni ai carabinieri sulle gerarchie interne alla mafia e sulla lotta tra le famiglie Bontade-Inzerillo-Badalamenti e il gruppo dei Corleonesi. Sul cadavere di Di Cristina furono trovati degli assegni che condussero Giuliano a indagare su un libretto di risparmio al portatore, che era stato usato dal faccendiere Michele Sindona.

Giuliano intuì per primo i rapporti tra mafia siciliana e americana nel narcotraffico

Giuliano aveva capito che in Sicilia l’oppio veniva trasformato in eroina prima di venire mandato negli Stati Uniti. Le prove arrivarono nel giugno 1979: all’aeroporto di Palermo, tra i bagagli di un volo arrivato da New York, furono trovate due valigie con 500 mila dollari in contanti, il prezzo di una partita di eroina pagato alle famiglie mafiose siciliane da quelle statunitensi. Poco tempo dopo all’aeroporto di New York gli investigatori americani sequestrarono eroina per un valore di dieci miliardi di lire, spedita da Palermo. L’8 luglio 1979, poi, Giuliano e gli agenti della squadra mobile scoprirono a Palermo un covo della mafia, dove trovarono armi, droga, foto che ritraevano vari boss corleonesi e gli effetti personali di Leoluca Bagarella. Un altro covo era stato scoperto pochi mesi prima: queste due operazioni avevano permesso di arrestare molti mafiosi appartenenti al gruppo dei corleonesi. In quelle settimane al centralino della Questura iniziarono ad arrivare telefonate anonime che minacciavano Giuliano di morte.

“Lo sceriffo deve morire” avevano sentenziato i vertici di Cosa Nostra. Troppo duro, tenace e competente da mettere a repentaglio i traffici del sodalizio criminale. Un detective con una marcia in più, il primo a intuire la connection tra mafia siciliana e americana nel narcotraffico e a decidere di aggredire il patrimonio dei mafiosi seguendo il denaro per disvelare i loro traffici. Un poliziotto con la schiena dritta ucciso perché era un passo avanti a tutti.

Bagarella fu condannato nel 1995 come esecutore dell’omicidio, gli altri boss dei corleonesi furono condannati come mandanti. Il giudice Paolo Borsellino scrisse nell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo: “Deve (…) ascriversi ad ennesimo riconoscimento della abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima. Senza che ciò voglia suonare critica ad alcuno, devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.

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