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“Bevi troppi caffè? E io ti licenzio”: la Cassazione dà ragione al datore di lavoro

La sentenza dei giudici supremi: troppe soste durante l’orario lavorativo, anche per un semplice caffè, possono giustificare il licenziamento per violazione del “minimo etico”.

Bere troppi caffè, intesi come pause durante l’orario lavorativo, può causare il licenziamento, soprattutto se si svolgono “mansioni in esterna”, ossia compiti e attività che un lavoratore svolge al di fuori del luogo di lavoro tradizionale, come un ufficio o una fabbrica. Non è una minaccia di qualche datore di lavoro troppo petulante, ma è quanto stabilito dalla Cassazione, l’organo supremo della giurisdizione ordinaria, responsabile di garantire l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto nazionale.

La sentenza ha riguardato un caso pratico, comune in molti luoghi di lavoro: soffermarsi a fare quattro chiacchiere al bar coi colleghi. Si è trattato del caso di un addetto alla raccolta e ritiro porta a porta di rifiuti urbani, che, soventemente, sosteneva delle soste più o meno prolungate al bar dei vari Comuni in cui esercitava le mansioni, come da contratto.

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Niente di male a soffermarsi a fare quattro chiacchiere al bar coi colleghi. Ma attenzione a non esagerare.

L’azienda per cui il nostro… eroe lavorava cominciò a nutrire dei dubbi sul tempo impiegato e, ingaggiato un investigatore privato, scoprì che le pause erano tante e ripetute. Il lavoratore fu licenziato per violazione degli obblighi contrattuali e per aver minato il rapporto di fiducia con l’azienda. Secondo la Cassazione i controlli aziendali sono legali se mirano a registrare comportamenti del lavoratore come atti penali, fraudolenti o dannosi per il datore di lavoro.

Sono illegali quelli che riguardano l’esecuzione o meno della prestazione lavorativa. Possono, infine, anche essere effettuati in maniera dissimulata se non provocano una sorveglianza continua e sono basati su sospetti concreti. Nel caso in questione era stata rispettata tutta la normativa sulla privacy. Nella sentenza la Cassazione ha inteso il patrimonio aziendale non solo come il complesso dei beni aziendali, ma vi ha fatto rientrare anche l’immagine percepita delle aziende.

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Chi svolge lavori fuori dalla sede aziendale non può pensare di usare sotterfugi per ingannare l’azienda, attraverso lunghe pause per bighellonare e non svolgere la propria la mansione.

La difesa del lavoratore licenziato ha cercato di appellarsi alla mancata affissione del codice disciplinare per evitare il licenziamento. La Cassazione, al contrario, ha dichiarato che questo non impedisce l’azione punitiva se in presenza di infrazioni del cosiddetto “minimo etico”. Ossia dei comportamenti fondamentali e imprescindibili che un individuo, in particolare un lavoratore, dovrebbe seguire per mantenere una condotta professionale accettabile.

 È un insieme di principi etici che, se violati, possono giustificare sanzioni disciplinari, anche in assenza di un codice disciplinare specifico o di una predeterminazione esplicita del comportamento illecito. Quindi, soprattutto chi svolge lavori fuori dalla sede aziendale non può pensare di usare sotterfugi per ingannare l’azienda, attraverso lunghe pause per bighellonare e non svolgere la propria la mansione. Anche perché il lavoratore in questione, pur essendo dipendente di un’azienda privata, svolgeva un lavoro di interesse pubblico, la raccolta dei rifiuti, che col suo comportamento fraudolento danneggiava.

E’ triste constatare l’assenza di qualsiasi etica alla base del comportamento umano. Questo riguarda qualunque categoria di persone e professionisti, enti e organizzazioni di varia natura, a conferma della sua trasversalità. Che sia una pausa-caffè più lunga del solito, un’azienda che paga in nero i suoi dipendenti, evadendo tasse e contributi previdenziali, utilizzo di denaro pubblico per altri scopi o altro, mai che ci fosse il rispetto della legalità e del lavoro fatto “a regola d’arte”, come si diceva una volta!

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