Arriva il “salario costituzionale”

La Cassazione stabilisce che la retribuzione minima può essere fissata dai tribunali. Grane in vista per politica e sindacato.

Roma – Affossato dal governo e sepolto dal Cnel, il salario minimo è rinato in pochi giorni, introdotto non per legge ma per sentenza. Quella con la quale la Cassazione ha stabilito che la retribuzione minima di un lavoratore può essere fissata anche dai tribunali. Perché uno stipendio deve rispettare i principi contenuti nell’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Storico il pronunciamento degli Ermellini e singolare il percorso attraverso il quale la questione è giunta fino a loro. Tutto parte tre anni fa da Torino, dove un addetto alla vigilanza si rivolge all’avvocato per opporsi al nuovo contratto imposto ai dipendenti dalla cooperativa in cui lavora: non più 1300 lordi, ma soltanto 950, che al netto valgono poco più di 700. Detto che la soglia di povertà nel capoluogo piemontese si incontra sopra gli 800, il legale del lavoratore, non potendo impugnare un contratto perfettamente legale, firmato da Cgil e Cisl, si rivolge direttamente al Tribunale.

La Cassazione ha richiamato al rispetto dell’articolo 36 della Costituzione

Il primo giudice gli dà ragione, la Corte d’Appello invece blocca tutto. Ora la sentenza della Cassazione torna a sorridere al vigilante e apre nuovi scenari giurisprudenziali sulla questione lavoro in Italia, sancendo di fatto la possibilità per un giudice di fissare un “salario minimo costituzionale”, quando lo stipendio di un lavoratore non garantisce un’esistenza libera e dignitosa, come sancito dall’articolo 36 della Costituzione, anche di fronte a contratti firmati dai sindacati più rappresentativi. I parametri economici di riferimento, per la Cassazione, devono essere i contratti affini in ciascun settore e l’indice di povertà assoluta dell’Istat.

Neanche tanto tra le righe la sentenza chiama in causa l’inazione della politica e direttamente le responsabilità dei grandi sindacati, colpevoli di aver troppo spesso posto la sigla su contratti poveri. E non è un richiamo di fronte al quale far spallucce, perché il sistema Italia non può permettersi una marea montante di ricorsi avversi a trattamenti salariali “da fame”, con la conseguenza di rendere il costo del lavoro una variabile impazzita per le aziende.

Il dibattito è destinato ad accendersi, anche perché l’intervento della Suprema corte, nel richiamare il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione, lo eleva a metro della dignità del lavoro, rianimandolo dopo decenni di sostanziale oblio. E’ una sentenza politica, nell’accezione più altra del termine, in quanto interroga non solo partiti e sindacati ma la società tutta sulla liceità, costituzione alla mano, del passaggio da un’economia di mercato ad un società di mercato. Nella prima il mercato convive con altre istituzioni che restano centrali, a partire dalla famiglia, nella seconda impone i suoi diktat (contratti, prezzi) all’intera vita civile. Difficile pensare che con 700 euro al mese a Torino una famiglia, sempre che uno riesca a farsela, non sia esposta ai comandamenti del mercato.

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