“Un uomo è libero soltanto se armato”: il Paese a stelle e strisce prigioniero del mito fondante strumentalizzato dalla lobby dei produttori. Non c’è strage che tenga.
Washington – Ora che l’ex sergente dell’esercito Robert Card, considerato uno schizofrenico ma libero di imbracciare un fucile da guerra Ar-15 e fare strage di 18 persone, si è tolto la vita in un bosco a pochi chilometri dal teatro della mattanza, l’America si riconsegna allo stanco rituale che fa seguito all’ennesimo eccidio annunciato. I democratici a chiedere leggi più restrittive – questa volta è toccato al presidente in carica Joe Biden – sull’altro fronte i repubblicani impegnati a respingere ogni ventilata restrizione. Un dibattito tra sordi che, per quanto acceso, appare zavorrato in partenza dall’impossibilità comprovata di giungere ad un qualsiasi risultato. Il tutto nella fatalistica attesa di un nuovo mass shooting (sparatoria di massa), schiavi di una tragica coazione a ripetere alla quale il Paese si è ormai consegnato, dell’ulteriore massacro che sposti di qualche metro più avanti il confine dell’orrore.
Il Maine è’ stata l’ultima stazione di un calvario nazionale che non partorisce soluzioni ma paradossi: ad ogni strage scatta la corsa a fare incetta di armi nel timore che la politica, sfruttando l’onda emotiva, riesca a imporre dei limiti; lo stesso riflesso condizionato che scuote l’America profonda dopo l’elezione di un presidente o di un governatore democratico, automaticamente inquadrato tra i nemici del libero popolo armato. A chi propone di vietare almeno la vendita dei fucili d’assalto e disarmare i killer, c’è chi prontamente ribatte alzando il tiro della sfida: perché invece non armare le potenziali vittime, siano esse maestre elementari o infermieri e medici di un nosocomio? Con la prospettiva di innescare un’infinita spirale di violenza.
Il resto del mondo osserva l’America e i suoi fantasmi più con stupore che con raccapriccio. Come è possibile, ci si chiede, che la più grande democrazia occidentale si condanni ogni volta all’inazione, incapace di guardare in faccia il nesso evidente tra la scellerata diffusione di armi e la sequenza di croci che è costretta a piantare con una periodicità ormai esponenziale? I numeri, per quanto si tratti di stime, non lasciano scampo: fotografano un paese che ha più fucili e pistole che cittadini. Tra est e west coast circolano circa 357 milioni di armi per 332 milioni di persone, ci sono quindi 120 armi ogni 100 persone, in una classifica mondiale che vede al secondo posto lo Yemen con 53 armi ogni 100 persone, poi la Serbia con 39. In Italia ci sono 14 armi ogni 100 persone. Senza contare che negli Usa esistono anche le cosiddette ghost guns, armi non rintracciabili perché costruite in casa assemblando componenti acquistati online. Un mercato che sfugge ad ogni controllo ed è quindi estremamente difficile da contrastare.
Quando invece si recano a fare acquisti in armeria gli americani preferiscono le pistole automatiche da 9 mm, considerate a buon mercato, precise, di facile utilizzo e simili alle armi in dotazione alla Polizia. Sognano però di maneggiare fucili semi automatici di tipo AR-15, quello che imbracciava il killer del Maine. Anche le statistiche per il numero di vittime da armi da fuoco indicano gli Stati Uniti nettamente al primo posto con 34 persone cadute ogni milione di abitanti, contro le 3 registrate per esempio in Italia. Se anche si volesse prestar fede a chi sostiene che le armi non c’entrano niente e che la colpa è soltanto degli squilibrati che sparano, forse dei videogiochi violenti, perfino dalla marginalità indotta dalla società contemporanea, resta di solare evidenza che tanto le malattie mentali, quanto i videogiochi, come anche i problemi sociali, esistano in tutti paesi del mondo, ma che soltanto negli Usa si finisca per risolverli sparando a raffica e con tale frequenza.
La domanda sul tappeto resta la stessa ormai da decenni: come è possibile che tutto ciò non abbia ancora modificato in modo radicale l’orientamento dell’opinione pubblica a stelle e strisce? Forse perché la propensione ad armarsi – e a non smettere nemmeno di fronte alla lunga scia di massacri – è una questione prima di tutto culturale, addirittura identitaria, che lambisce il mito fondante della comunità. Per capire serve spogliarsi dalle sottigliezze indotte dal razionalismo europeo – che peraltro nel Novecento ha prodotto mostri su larga scala – e avvicinarsi al sentire profondo di una nazione giovane come quella americana, percorsa da fremiti sempre nuovi, ancora fanciullesca e quindi spietata come soltanto i bambini sanno essere. Ed evitare di cedere alla tentazione di applicare i propri schemi ad un contesto che, per quanto occidentale, non è affatto assimilabile a quello europeo.
Gli States restano il Paese delle infinite possibilità, il teatro potenziale dove ogni riscatto sociale può compiersi, ma al tempo stesso sono una società lacerata da feroci diseguaglianze economiche, sociali e razziali, all’interno della quale convivono formidabili spinte centrifughe: il laicismo esasperato e il fondamentalismo delle comunità evangeliche, i pionieri dell’innovazione della Silicon Valley e le sette in attesa dell’Armagedon. Una nazione dove lo Stato dell’Oklahoma approva la normativa più restrittiva sull’aborto mentre continua a spendere spiccioli per il sostegno ai bambini in povertà; dove, appunto, un diciottenne non può consumare alcool ma può legalmente detenere e usare una pistola. E che dire del Texas, che ha reso più facile acquistare armi ma si accanisce contro i sex toys, strumenti di stimolazione sessuale ritenuti per legge “osceni”?
L’America è dunque il luogo delle contraddizioni. Il rapporto con le armi non fa eccezione, sebbene abbia radici profonde e per alcuni versi nobili. Lungi dall’essere un retaggio folkloristico, il fucile appeso sopra il caminetto del salone resta un simbolo identitario del Paese, quanto se non più della stessa bandiera e dell’aquila calva. Con quelle carabine a lunga gittata, perfezionate dagli armaioli tedeschi emigrati, i primi coloni difesero la propria vita e quella delle loro famiglia, la proprietà privata e insieme l’America stessa, i cui estremi confini spesso coincidevano con quelli della remota fattoria. Al di là della staccionata, oltre quel primitivo limes, c’erano gli orsi e i coyotes, i nativi americani con i quali commerciare ma anche scontrarsi, le milizie francesi e poi gli oppressori inglesi.
George Washington e i “padri fondatori” della nazione maturarono un forte debito di riconoscenza verso pionieri e cacciatori di pellicce, uomini duri e risoluti che sapevano imbracciare il fucile e soprattutto ne possedevano uno di proprietà. Fu anche grazie alla formazione delle milizie popolari armate che le Tredici colonie sconfissero il più organizzato esercito di Sua Maestà britannica e conquistarono l’indipendenza. Ragion per cui il secondo emendamento alla Costituzione americana, ratificato nel 1791, garantì a tutti i cittadini statunitensi il diritto di possedere delle armi: “(…) the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed” (il diritto del popolo di detenere e portare armi non sarà violato).
Per intendersi sulla portata dell’enunciato, basti ricordare che gli emendamenti furono aggiunti a seguito di un aspro dibattito nato per superare le obiezioni alla ratifica della Carta Costituzionale avanzate dagli Stati dell’Unione meno propensi alla creazione di un governo federale, a sottomettersi cioè ad un solo centro di potere. Pretesero di inserire delle aggiunte alla carta – gli emendamenti appunto – che garantissero oltremodo le libertà e i diritti personali, oltre a precise limitazioni del potere assegnato al governo federale. Tra i diritti da evidenziare identificarono quello del libero possesso di un’arma, e quindi la difesa del principio che vuole una persona veramente libera soltanto quando è in grado di difendersi da sola, e vollero inserire questa salvaguardia al secondo posto, dietro soltanto alla libertà di culto, parola e stampa.
I padri fondatori americani sostennero quindi il diritto “ad armarsi” in quanto parte della loro convinzione illuminista che vedeva nella molteplicità di centri di potere il miglior deterrente alla nascita di una dittatura centralizzata: le milizie locali come contrappeso all’invadenza liberticida dell’autorità centrale. Da allora il fucile sopra il camino è divenuto un emblema di libertà, non di morte, lo strumento da brandire per difenderla e tornare ad affermarla, anche contro il potere centrale che volesse trasformarsi in dittatura. Durante il lockdown per l’emergenza Covid si è registrata negli Usa un’impennata nella vendita delle armi, spiegata dagli analisti come un riflesso istintivo all’ingerenza di Washington nella sfera privata dei cittadini. A differenza di quanto è accaduto storicamente in Europa con la nascita dei moderni stati nazionali, infatti, il cittadino americano non ha mai delegato al potere politico l’esclusivo uso della forza, ritenendo che in questo esercizio si nasconda l’essenza stessa della sua libertà.
Possiamo quindi ancora parlare di rapporto morboso degli americani con le armi? Dall’altra parte dell’Oceano potrebbero facilmente obiettare che la storia europea avrebbe preso un altro corso se Mussolini e Hitler avessero dovuto affrontare milizie popolari ben armate e organizzare in grado di intervenire al primo presentarsi di leggi liberticide. E che forse è stato proprio il cittadino armato ad impedire agli Usa di incubare fascismo e nazismo, piaghe che hanno al contrario contribuito ad estirpare.
È però altrettanto evidente che, nel momento in cui dettarono il secondo emendamento, i padri fondatori non avessero in animo di consegnare il futuro del Paese al “Far West” al quale assistiamo oggi. Un conto è salvaguardare l’ethos dei primi pionieri, fulcro dell’indipendenza delle colonie, un altro è il liberi tutti che consente ad ogni “mister Smith” di detenere un’armeria personale con decine tra fucili e pistole. La funzione storica dell’individuo armato pronto ad unirsi alle milizie locali avrebbe dovuto spegnersi parallelamente al nascere delle polizie dei singoli stati e infine dell’esercito federale. Col tempo, invece, il secondo emendamento è divenuto ostaggio di enormi interessi economici e di riflesso politici, brandito come strumento propagandistico, innalzato a vessillo del mito fondativo della nazione, il suo stesso assunto originario disatteso e interpretato in termini estensivi come un diritto costituzionale individuale al possesso di armi. Il Paese è stato così ammorbato da una tossica commistione di storia, cultura, politica e denaro che continua a impedirgli d’imporre una qualsiasi significativa limitazione alla proprietà privata di armi da fuoco.
Un’azione articolata che ha visto numerosi attori in campo. A partire dai giudici, quelli della Corte Suprema, la massima magistratura americana, i cui pronunciamenti sono in grado di cambiare nel profondo alcuni aspetti della vita dei loro connazionali. Dopo un lungo silenzio in merito alla questione delle armi, nel 2008 i togati, sebbene a risicata maggioranza, esplosero il primo e più devastante colpo all’ipotesi di regolamentare l’accesso alle armi, inaugurando di fatto la stagione di deregulation i cui effetti nefasti il Paese sta ancora pagando. Nel luglio di quell’anno la Corte dichiarò infatti incostituzionale la legge del Distretto di Columbia – dove sorge la capitale, Washington D.C. – che ne aveva vietato ai residenti il possesso, definendo quello di armarsi un diritto “inviolabile” dei singoli cittadini al pari persino di quello di voto e di libertà d’espressione. Era l’interpretazione estensiva del secondo emendamento che il partito delle armi attendeva prima di scendere in campo con tutta la sua potenza.
Il “partito delle armi”, per la verità, nemmeno avrebbe bisogno degli assist dei togati, vista la potenza economica di cui dispone. Muove un giro d’affari su base trimestrale che si attesta intorno agli 800 milioni di dollari, ai quali si devono sommare gli oltre cento milioni destinati alle munizioni. Perché gli americani, oltre a comprarle, con le armi sparano davvero. Dal 2000 a oggi la produzione si è più che triplicata. Tra le top 100 delle aziende più ricche e produttive al mondo, ben 50 sono americane.
Sentinella e promotrice di questa straordinaria macchina da utili è la National Rifle Association (NRA), di fatto un’associazione di categoria – e per lungo tempo, dal momento della sua fondazione nel 1871, niente di più che un’associazione sportiva – che però negli ultimi trent’anni è entrata a gamba tesa nelle stanze della politica. Protagonista di un costante lavoro di promozione del possesso di armi per via legislativa e come aspetto fondante dell’identità americana, prima del voto presidenziale del 2020 la NRA ha speso circa 29 milioni di dollari in campagne pro o contro candidati, nella quasi totalità esponenti del partito repubblicano. Nel 1981 Ronald Reagan fu il primo presidente eletto col loro sostegno, ma più recentemente pure il senatore socialista del Vermont Bernie Sanders ha ricevuto dei fondi. Dal 2016 , la NRA ha puntato tutto su Donald Trump, finanziando la sua elezione con 30 milioni di dollari, e il tycoon non lo ha dimenticato: “Alla Casa Bianca avete un amico e campione”, ha ripetuto più volte. Negli anni di Barack Obama l’NRA era stata cruciale nell’impedire all’allora presidente – alle prese con la strage di bambini di Sandy Hook – di varare leggi ancor più restrittive.
Il braccio legislativo della NRA è l’ALEC (American Legislative Exchange Council), un team di giuristi che redige e propone alle assemblee statali leggi pro armi già pronte all’uso. Gli esperti dell’ALEC si incaricano di spiegare ai singoli deputati i vantaggi derivanti dal proporre e far passare quel tipo di norme (contributi elettorali e visibilità presso la propria base), un’azione di lobbing che funziona soprattutto laddove la maggioranza è repubblicana. Ha funzionato eccome nel maggio del 1986, data da segnare con l’evidenziatore tra le tappe che hanno condotto l’America a perdere il controllo sulla circolazione interna delle armi. Spinto dalla NRA il Congresso approvò il Firearm Owners Protection Act (Fopa), un provvedimento che rimosse gran parte delle restrizioni sulla vendita di pistole e fucili, ma soprattutto proibì allo Stato federale di creare una banca dati per registrarne i possessori. E tanti saluti al Gun Control Act, approvato 18 anni prima, pacchetto di norme restrittivo sul commercio delle armi varato all’indomani della stagione di sangue che condusse agli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy. La carabina di precisione della NRA puntata sui lacci e laccioli che fino ad allora avevano imbrigliato gli aspiranti pistolero “fai da te” aveva colto il suo primo grande bersaglio. Le maglie della legislazione cominciarono allora a slabbrarsi.
Di recente la NRA ha raccolto altre prede. È successo con le norme che offrono un’interpretazione estensiva della legittima difesa, le cosiddette leggi stand your ground che consentono a chi si sente in pericolo di usare la forza e non dover arretrare se minacciato. Approvate in 24 Stati, in Florida hanno consentito all’uomo che ha ucciso il 17enne afroamericano Trayvon Martin mentre andava a comprarsi uno snack di essere scagionato da ogni accusa. Al lavoro legislativo l’ALEC affianca anche un discutibile sforzo propagandistico, spendendosi per la costruzione di un nesso ideale tra il possesso di armi e il rivendicato status di buon americano, patriota e cristiano.
E la politica? Sul tema appare fragile e balbettante, sicuramente ricattabile. In generale i due principali raggruppamenti, democratici e repubblicani, stentano a scaldare i cuori degli elettori, da qualche anno più sensibili a mobilitarsi su singole tematiche che catturano di volta l’attenzione generale. Campagne orchestrate dal basso che per loro natura sfuggono al controllo dei quartier generali dei partiti, condotte da gruppi organizzati e ben finanziati dai potentati economici. Una di queste, forse la più scottante, è ormai da anni la questione delle armi, dove la NRA spende tutta la sua forza di condizionamento, economico e ideale. I repubblicani, rappresentati di un elettorato già di per sé incline alla libera circolazione di pistole e fucili, sono da tempo acquisiti alla causa, ma anche i democratici ci vanno cauti a proporre draconiani giri di vite sul tema, consapevoli che perfino i loro elettori non sono così immuni dalla “potenza di fuoco” del mito fondativo, e timorosi di incappare nell’infallibile cecchinaggio politico della potente associazione dei produttori.
A completare la perfetta impasse decisionale in cui è precipitato il Paese incide non poco la stessa architettura istituzionale voluta dai padri fondatori, un bicameralismo perfetto costruito per permettere alle due assemblee elettive di svolgere un reciproco controllo, bilanciamento che nella realtà dei fatti si traduce in un Senato che funziona da tappo alla gran parte delle iniziative legislative varate dalla Camera. Mentre quest’ultima assemblea è composta, infatti, da un numero di deputati eletti da ogni Stato in numero proporzionale alla sua popolazione, al Senato siedono invece cento senatori in rappresentanza dei cinquanta Stati: due per ciascuno a prescindere dal numero di elettori. Un’aritmetica elettorale che consegna agli Stati rurali, meno popolati ma tendenzialmente più inclini, anche per ragioni pratiche, al possesso delle armi, un fenomenale potere di interdizione su qualsiasi iniziativa che intenda disciplinare il settore. Se in Italia esiste la pratica dell’ostruzionismo parlamentare, in America funziona ancora meglio il cosiddetto filibuster, attraverso il quale gli esponenti dell’opposizione possono dilatare sine die la discussione sul singolo provvedimento fino ad impedirne l’approvazione. Tra i temi che maggiormente hanno dovuto fare i conti con il filibuster, ci sono infatti quelli relativi alle armi. Negli ultimi dieci anni sono state bloccate tre leggi (2013, 2015, 2016) sull’estensione dei cosiddetti background checks, ovvero il controllo preventivo su chi vuole acquistare un’arma.
E gli elettori che ne pensano? I sondaggi danno conto di un’opinione pubblica fortemente polarizzata sul tema, una fotografia che disegna, seppur con molte sfumature e sostanziali differenze tra gli Stati, un’America di fatto spaccata in due sulla questione. Poco importa, a decidere continueranno ad essere un pugno di senatori eletti da un’esigua minoranza, il cui destino politico dipende in buona misura dai fondi loro elargiti da gente che con le armi si è fatto ricco.