La recente sconfitta alle elezioni regionali di Lombardia e Lazio ha riportato in auge il tema di un’opposizione che latita. Carenza di personalità, eterogeneità e mancanza di passione tra le cause ascrivibili al processo.
Roma – In politica quando manca la credibilità non si riesce a determinare quell’entusiasmo necessario per impegnarsi e vincere. E quando l’impegno manca anche ai propri dirigenti, il “papocchio” è servito. In buona sostanza se non si crede in un progetto alternativo alla coalizione avversa non si potranno mai contaminare altri con il virus benefico dell’interesse e della passione per un ideale, che in questo caso è del tutto assente fra i dem che navigano a vista.
Se si ripercorre il cammino degli anni precedenti, all’opposizione o in maggioranza, ci si rende conto di quanto sia sgradevole scoprire che l’incoerenza è l’unico filo che unisce il partito democratico. Un solo esempio, per tutti, il reddito di cittadinanza che ai tempi del governo giallo-verde il Pd non ha voluto votare, per poi in seguito cambiare idea per non lasciare la palla solamente al M5S. Conversione, peraltro, inutile visti i risultati elettorali e le strategie delle alleanze. Di Maio docet, un’alleanza politica da non dimenticare perché traghettata con il simbolo di Tabacci, candidato però tra i dem. La verità è che ancora, nel Pd, si cerca una identità che non si potrà mai raggiungere fino a quando non si farà chiarezza tra i partiti che hanno determinato la fusione fredda.
La Margherita, l’area popolare, qualche ex repubblicano e persino ex Udc, i Ds. Tutti con visioni diverse della società. Se, invece, non è così spieghino il motivo per cui un segretario non resiste più di qualche anno. Sia chiaro che chi vota oggi Pd non fa parte del cosiddetto “proletariato”, ma, invece, con il naso all’insù avverte solamente un senso di superiorità, morale ed etica, nei confronti del centrodestra. La vera base elettorale di sinistra proveniente dall’ex Pci ormai sta scomparendo e forse anche gli ideali che l’hanno determinata. Spostare tutto il partito, comunque, a sinistra significa continuare ad ingolfare una parte politica che è già presente nel panorama attuale, anche se divisa.
In ogni caso, la secca sconfitta elettorale registrata dallo schieramento avverso al centrodestra nelle due principali regioni italiane, il Lazio e la Lombardia, ha molteplici motivazioni: le divergenze, la scarsa condivisione delle alleanze che con fatica e scarso entusiasmo si sono parzialmente realizzate, tanto che il Pd è rimasto in mezzo al guado e privo di un comandante. I deboli spunti programmatici dei suoi candidati alle regionali, peraltro lasciati soli, non hanno convinto. Ma tutto questo non basta per giustificare lo scarso consenso ottenuto che coinvolge tutti i protagonisti, non a caso all’indomani del voto i loro commenti sono stati di circostanza, compreso quello del segretario del Pd, che si è detto soddisfatto che il partito abbia mantenuto l’egemonia sui concorrenti pentastellati e terzopolisti. Uno strano modo per esorcizzare la doppia sconfitta.
Insomma, l’unico sorriso che è emerso è stato quello di constatare di essere arrivati primi tra i perdenti. Oltretutto, è opportuno sottolineare che la somma dei voti delle tre forze politiche è inferiore a quanto guadagnato dal centrodestra. Ovvero se anche Pd, Movimento 5 Stelle e Terzo Polo si fossero presentati assieme non avrebbero vinto. Invece, la forza del centrodestra, che per altro si era presentato diviso sulle questioni di governo nazionale, è stata quella di proporsi come identità in grado di riprendere le redini del potere regionale e quindi di governare i territori per i prossimi 5 anni.
Insomma, la certezza di non potere vincere è stata trasmessa ai cittadini. Tanto è vero che gli elettori di centrosinistra si sono convinti che non c’era gara, non c’era una reale alternativa al centrodestra, che il loro voto non sarebbe servito, perciò sono rimasti a casa e questo vale anche per lo schieramento vincente. Insomma non c’era entusiasmo da nessuna parte.