Lo dice la Cgia di Mestre: entro il 2028 circa 3 milioni di italiani avranno il meritato riposo, 2 milioni al Centro e nel settentrione.
Roma – Il Mezzogiorno d’Italia vive più di pensioni che di salari! E ti pareva se nel Mezzogiorno d’Italia non saltava fuori qualche magagna? È, ormai, diventato un postulato: quando si pronuncia la parola Sud, qualche criticità emerge sempre. È quasi scontato. Converrebbe non sprecare risorse finanziarie per effettuare studi e ricerche, tanto l’esito si conosce a priori!
Ora è il turno delle pensioni, che sono maggiori dei salari. Vale a dire, una dipendenza dal welfare, che, finora, si è pensato di curare con la “politica dei redditi”. Si tratta di un piano concertato tra imprenditori e sindacati per accrescere i salari grazie alla crescita della produzione e degli utili d’impresa. Vista la situazione, la terapia si è dimostrata un palliativo che non ha migliorato le condizioni del malato.
Secondo uno studio della CGIA di Mestre, il “morbo” si diffonderà anche al Nord del Paese, dove c’è il più alto livello di ricchezza prodotta. La CGIA è l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese con sede a Mestre. Eroga servizi alle imprese e si fa promotrice di battaglie sindacali a sostegno del lavoro autonomo e degli imprenditori. Secondo le stime diffuse, entro il 2028 andranno in pensione circa 3 milioni di lavoratori, che non saranno sostituiti, almeno la maggioranza. Ben 2 milioni di pensionamenti si verificheranno nelle regioni del Centro-Nord, ritenute fino a poco tempo fa non sfiorate dal fenomeno.
Ed invece, la ricerca sociale, ancora una volta, conferma la sua volatilità e, quindi, i suoi risultati vanno presi sempre con le pinze. Sta di fatto che il Bel Paese rischia di tracimare di fronte a quello che può essere considerato come un vero e proprio “alluvione sociale”. D’altronde, il ricambio generazionale manifesta tutta la sua insostenibilità. Se meno giovani, infatti, varcano la soglia del mercato del lavoro e la popolazione continua ad invecchiare, il risultato non può che essere un calo continuo della forza lavoro disponibile!
Quindi, anche il, finora produttivo, Nord Italia rischia di sentirsi stringere nella morsa delle pensioni in numero maggiore dei salari. Poiché nel Sud Italia la situazione era stata… anticipata, ora l’emergenza diventa sistema. Il motivo per cui il disastro è stato accelerato è dovuto alla disoccupazione sempre più galoppante. Molte città manifestano un tasso negativo tra pensioni e salari, con le prime in aumento numericamente e i secondi in caduta libera. Ad essere numerose sono le pensioni sociali, d’invalidità e assistenziali.
A sentenziare che il fenomeno non riguarda i pensionati tout-court, ma investe tutta la struttura socio-economica dei territori colpiti dal flagello. Non si tratta, quindi, solo di pensioni di vecchiaia, perché la parte da leone (per così dire) la recita l’assistenzialismo e, quindi, è palese che il sistema manifesti le sue fragilità. In moltissime aree meridionali il tasso di occupazione è molto inferiore alla media nazionale, la natalità ha preso una brutta piega e il lavoro sommerso e irregolare non può essere rilevato come base contributiva.
Il Nord, stanco, forse, di farsi… superare dal Sud in questa sorta di classifica a chi sta peggio nel rapporto salari/pensioni, comincia a scricchiolare. Ci sono città come Ferrara, Alessandria, Biella e tutte le province della Liguria in cui è stato rilevato un segnale negativo. Se viene meno anche il Nord, gli scenari sono davvero catastrofici.
Questa disparità non riguarda solo la previdenza, ma l’intero sistema Paese. Si potrebbe verificare, ad esempio, un calo nel settore immobiliare, perché se la popolazione diventa più anziana è pure meno orientata all’acquisto di case. Al contrario, due settori, il sanitario e farmaceutico, faranno salti di gioia, soprattutto per le loro tasche, mentre i costi sociali gravissimi saranno tutti a carico dello Stato. Che spettacolo!